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Civile Giurisprudenza Patavina-Tribunale

Qualifica di consumatore: il Tribunale di Padova ne definisce i contorni (Trib. Padova, Giudice Cantelli, sent. 634/2023)

Trib. di Padova, Giudice Dr. Vincenzo Cantelli, Sentenza n. 634/2023, pubbl. il 29/03/23 (RG 7934/2021)

PREMESSA

Lo status di consumatore è ancora oggi al centro di un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale dovuto al fatto che, in determinati casi, esso presenta dei contorni non particolarmente certi. Sol si consideri alle conseguenze di non poco momento che l’applicabilità della disciplina consumeristica comporta, ad esempio, in tema di competenza per territorio piuttosto che di onere della prova. Il Giudice Patavino, dopo avere effettuato una accurata disamina del materiale probatorio allegato dalle parti, conclude escludendo la natura di consumatore della parte convenuta in giudizio, ritenendo, per l’effetto, infondate le eccezioni di incompetenza territoriale e di nullità della clausola risolutiva espressa contenuta nel contratto. (CC)

IL PASSO SALIENTE

L’art. 3 d.lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) definisce il consumatore come “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”, mentre il professionista come “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”. Vi è dunque un primo punto fermo: la legge ricollega la natura consumeristica alla finalità perseguita da una parte, persona fisica, che stipuli un contratto e non al mero dato costituito dal non essere questi una persona giuridica. […] Quanto al requisito dell’estraneità ora citato, va evidenziato che, per costante giurisprudenza, non è necessario, ai fini della qualifica come imprenditore/professionista di una data persona fisica, che il contratto stipulato costituisca di per sé esercizio dell’attività di impresa, ma è sufficiente che “il contratto sia stipulato al fine di soddisfare interessi anche solo connessi od accessori rispetto allo svolgimento dell’attività imprenditoriale o professionale. Di talché è atto compiuto dal professionista non solo quello che costituisca di per sé esercizio della professione, ma anche quello legato alla professione da un nesso funzionale” (Cass. 22810/2018; sul punto, anche Cass. 8419/2019 e Cass. 11773/2013).

LA SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI PADOVA

Seconda Sezione Civile

Il Tribunale, nella persona del Giudice, dott. Vincenzo Cantelli,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. 7394/2021 R.G. promossa

da

[…], difeso dall’avv. […], domiciliato presso lo studio del medesimo difensore in […]

contro

[…] S.P.A., difesa dall’avv. CLAUDIO CALVELLO, C.F. CLVCLD65B22A001L, domiciliata presso lo studio del medesimo difensore in Abano Terme (PD), via Previtali n. 30.

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come all’odierna udienza di precisazione e discussione orale ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c.

L’opponente ha concluso come da prima memoria istruttoria depositata in data 6/7/2022:

“1. Revocarsi l’ordinanza 21/03/2022 e disporre la sospensione della provvisoria esecuzione del decreto opposto, perchè, per le ragioni tutte esposte negli atti difensivi, sussistono i gravi motivi richiesti dall’art. 647 c.p.c.;

2. Accertarsi e dichiararsi la nullità della clausola n. 8 – Foro Competente del contratto preliminare 29 marzo 2019 ai sensi degli artt. 33 -34 comma 2 lettera u) – 36 D. lgs. 206/2005;

3. Accertarsi e dichiararsi che il foro del consumatore, competente in via esclusiva per la controversia di cui è causa, è il Tribunale di Rovigo nella cui circoscrizione si trova la residenza del sig. […];

4. Nel merito, per i motivi esposti al punto 3 della narrazione (pagina 7 e ss), previe le declaratorie necessarie sulle eccepite nullità della clausola n. 4 del contratto ovvero ritenuta la condizione risolutiva come non apposta e in ogni caso inefficace ovvero per qualsiasi altro motivo dedotto, dichiarare che il contratto di cui è causa è tuttora vigente tra le parti e che, pertanto, […] S.p.a. non ha diritto a pretendere la restituzione della caparra confirmatoria versata al sig. […];

5. In via subordinata nel merito, nella denegata ipotesi in cui il Tribunale non ritenesse il contratto preliminare vigente, accertare e dichiarare che lo stesso si è risolto per illegittimo recesso del promissario acquirente […] S.p.a. e che, pertanto, il promittente venditore ha diritto a ritenere in via definitiva la somma di euro 470.000,00 versata a titolo di caparra confirmatoria.

6. Dichiararsi nullo e revocarsi il decreto ingiuntivo opposto con ogni conseguenza di legge;

7. Per l’effetto, ordinarsi la cancellazione della iscrizione ipotecaria eseguita a carico di […] e di cui alla nota iscritta in data 1.10.2021 ai numeri R.G. 5511 R.P. 710 presso la Agenzia delle Entrate – Ufficio Provinciale Padova – Territorio – Servizio di Pubblicità Immobiliare di […] con spese a carico della parte opposta.

8. Spese e compensi di causa rifusi.”.

L’opposta ha concluso come da foglio di precisazione delle conclusioni:

Voglia l’On.le Tribunale adito, contrariis reiectis, per tutto quanto dedotto ed argomentato nella narrativa del presente atto introduttivo,

In via preliminare:

– accertarsi e dichiararsi la competenza del Foro di Padova;

Nel merito:

– in via principale: respingersi l’opposizione attorea e rigettare le domande ex adverso formulate, perché infondate in fatto e in diritto e, per l’effetto, confermarsi il decreto ingiuntivo opposto;

– in via subordinata, in ogni caso, accertare e dichiarare l’infondatezza, in fatto e in diritto, delle domande di controparte ed accertare e dichiarare che il sig. […] è debitore nei confronti di […] S.p.a. della somma di € 470.000,00=, oltre agli interessi fino all’effettivo soddisfo, ed oltre alle spese della fase monitoria, liquidate in € 4.185,00= per onorari ed € 634,00= per esborsi, oltre agli accessori di legge; e per l’effetto condannare il sig. […] a pagare la somma di somma di € 470.000,00=, oltre agli interessi fino all’effettivo soddisfo, ed oltre alle spese della fase monitoria, liquidate in € 4.185,00= per onorari ed € 634,00= per esborsi, oltre agli accessori di legge, ad […] S.p.a.;

– in via ulteriormente subordinata: accertare l’indebita percezione, da parte del Sig. […], della somma di € 470.000,00= e, per i motivi ed i titoli esposti in narrativa, condannare il sig. […], a titolo di indennizzo ex art. 2041 c.c., al pagamento a favore di […] S.pa. di € 470.000,00=, oltre interessi.

In ogni caso, con vittoria di spese e competenze professionali”.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

[…] S.p.a. proponeva ricorso per decreto ingiuntivo, affermandosi creditrice di […] per la somma di euro 470.000,00, derivante dall’obbligo restitutorio di […], quale promittente venditore, della caparra confirmatoria ricevuta da […], quale promissario acquirente, in relazione ai contratti preliminari di vendita immobiliare stipulati in data 28/6/2018 e in data 29/3/2019, non adempiuti dal promittente venditore.

In particolare, la ricorrente affermava:

– Di aver stipulato un primo contratto preliminare di vendita di un terreno di proprietà di […] sito in […] (PD), versando a favore di questi la somma di euro 150.000,00, a titolo di caparra confirmatoria;

– Di aver stipulato, a seguito della risoluzione del predetto contratto preliminare per operatività della condizione risolutiva ivi contenuta, un nuovo contratto preliminare in data 29/3/2019, versando a favore del promissario acquirente un’ulteriore somma a titolo di caparra confirmatoria, pari ad euro 320.000,00;

– Che, all’art. 3 del nuovo contratto preliminare, era stato dato atto che […] s.p.a. aveva versato la complessiva somma di euro 470.000,00, a titolo di caparra confirmatoria relativa ai due successivi contratti preliminari;

– Che anche tale ultimo contratto preliminare si era risolto per l’operatività di clausola risolutiva espressa;

– Che il promissario venditore si era riconosciuto debitore della somma ricevuta a titolo di caparra confirmatoria, mediante comunicazione del 10/6/2021;

– Di avere, dunque, diritto alla restituzione della complessiva somma di euro 470.000,00, non ancora corrisposta da parte del promissario venditore, nonostante le plurime proroghe del termine di restituzione concesse da […] s.p.a.

Notificato il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. 2130/2021, per la somma di euro 470.000,00, […] proponeva opposizione, contestando integralmente le pretese dell’ingiungente.

In particolare, l’opponente affermava:

– Di aver concluso il contratto preliminare oggetto di causa nella veste di consumatore;

– Di essere residente presso il comune di […], ricompreso nel circondario del Tribunale di Rovigo;

– Che la clausola di individuazione del foro competente esclusivo nel Tribunale di Padova, pattuita con il contratto preliminare, era da ritenersi nulla in quanto vessatoria e non preceduta da trattativa individuale;

– Che, per gli stessi motivi, era nulla anche la clausola che prevedeva l’onere, per il promittente venditore, di adattare l’assetto urbanistico del bene al progetto redatto dal promissario acquirente;

– Che la condizione risolutiva espressa invocata dall’opposta per la dichiarazione di risoluzione del contratto, a fronte del mancato adempimento dell’onere di adattare l’assetto urbanistico del bene al progetto redatto da […], era da considerarsi come non apposta, ai sensi dell’art. 1354 c.c., in quanto impossibile da realizzare.

In conclusione, […] chiedeva, in via di rito, che fosse dichiarata l’incompetenza del Tribunale di Padova in favore di quello di Rovigo; nel merito, che fosse revocato il decreto ingiuntivo.

Si costituiva la convenuta opposta, spiegando le seguenti difese:

– Affermava l’inapplicabilità della disciplina consumeristica, avendo l’opponente stipulato il contratto in qualità di professionista nell’esercizio della sua attività imprenditoriale di compravendita di immobili, dimostrata dalla titolarità di apposita ditta individuale e del diritto di proprietà su 89 immobili;

– Affermava, di conseguenza, l’infondatezza sia dell’eccezione di incompetenza, sia dell’eccezione di nullità della clausola che prevedeva l’onere, per il promittente venditore, di adattare l’assetto urbanistico del bene al progetto redatto dal promissario acquirente.

In conclusione, la convenuta opposta chiedeva il rigetto dell’opposizione e, conseguentemente, la conferma del decreto ingiuntivo opposto.

In subordine, l’opposta domandava la condanna dell’opponente alla restituzione della caparra confirmatoria per euro 470.000,00, anche ai sensi dell’art. 2041 c.c.

Con ordinanza del 21/3/2022, il giudice rigettava la sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto ed assegnava alle parti i termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c.

Veniva infine fissata l’odierna udienza di precisazione delle conclusioni e discussione orale ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c.

 MOTIVI DELLA DECISIONE

L’opposizione è infondata.

Sulla natura non consumeristica dell’opponente.

Ai fini della decisione sia dell’eccezione di incompetenza, sia dell’eccezione di nullità della clausola del contratto preliminare oggetto di causa (art. 4), con cui le parti hanno pattuito l’onere per il promittente venditore, di adattare l’assetto urbanistico del bene al progetto redatto dal promissario acquirente, è necessario dirimere la controversia sulla natura consumeristica o meno dell’odierno opponente, in relazione alla conclusione del contratto preliminare di compravendita di cui si discute.

Ciò posto, si evidenzia che all’opponente non può essere riconosciuta la natura consumeristica quanto all’operazione negoziale oggetto di giudizio.

Sul punto, deve innanzitutto essere richiamato il dettato normativo.

L’art. 3 d.lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) definisce il consumatore come “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”, mentre il professionista come “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”.

Vi è dunque un primo punto fermo: la legge ricollega la natura consumeristica alla finalità perseguita da una parte, persona fisica, che stipuli un contratto e non al mero dato costituito dal non essere questi una persona giuridica.

In altre parole, se certamente una persona giuridica non può mai essere consumatore, è altrettanto vero che non tutte le persone fisiche possono, per ciò solo, dirsi consumatori: invero, tali sono solo quelle che, nella stipula di un contratto, perseguano finalità estranee all’attività imprenditoriale eventualmente svolta.

Quanto al requisito dell’estraneità ora citato, va evidenziato che, per costante giurisprudenza, non è necessario, ai fini della qualifica come imprenditore/professionista di una data persona fisica, che il contratto stipulato costituisca di per sé esercizio dell’attività di impresa, ma è sufficiente che “il contratto sia stipulato al fine di soddisfare interessi anche solo connessi od accessori rispetto allo svolgimento dell’attività imprenditoriale o professionale. Di talché è atto compiuto dal professionista non solo quello che costituisca di per sé esercizio della professione, ma anche quello legato alla professione da un nesso funzionale” (Cass. 22810/2018; sul punto, anche Cass. 8419/2019 e Cass. 11773/2013).

Fatte tali premesse, va evidenziato un primo profilo di infondatezza delle argomentazioni dell’opponente nel sostenere la sua natura di consumatore.

Egli, infatti, si è limitato apoditticamente a sostenere tale natura, evidenziando la propria natura di persona fisica, ottantaduenne, estraneo a qualsivoglia attività imprenditoriale o professionale.

Tali argomentazioni hanno tuttavia trovato diretta smentita nelle allegazioni e nelle produzioni della convenuta, la quale ha documentato che […]: i) è titolare di un’impresa individuale avente ad oggetto la compravendita immobiliare effettuata su beni propri, in particolare di un’attività imprenditoriale svolta con costanza dal 1964 e precedentemente esercitata in forma societaria (doc. 2 opposta); ii) è proprietario di 89 immobili siti in tutta la provincia di Padova (doc. 1 opposta).

Quanto al primo profilo, l’opposta ha depositato la visura storica presso la Camera di Commercio di Padova della ditta individuale […], operante dal 11/11/1964 e dal 28/1/2014 in particolare nel settore della compravendita su beni propri, allo stato attiva, con sede in […] e con domicilio del titolare in […].

Quanto al secondo profilo, l’opposta ha depositato visura immobiliare per nominativo estratta dal registro tenuto presso l’Agenzia delle Entrate, da cui emerge effettivamente la titolarità di 89 immobili nella provincia di Padova in capo all’opponente.

Si tratta di produzioni documentali dirimenti nell’escludere che, nel contratto preliminare di compravendita oggetto di giudizio relativo ad un terreno sito in […] (PD), l’opponente abbia agito nella qualità di consumatore:

– In primo luogo, infatti, le affermazioni di […] riportate in atto di citazione – circa la pretesa assenza di svolgimento di qualsivoglia attività imprenditoriale – hanno trovato diretta smentita: in particolare, le produzioni documentali dell’opposta dimostrano non solo che l’opponente abbia svolto da tempo attività imprenditoriale, ma che egli la svolga tuttora esattamente nel settore della compravendita immobiliare, cui è riconducibile l’operazione negoziale oggetto di giudizio;

– In secondo luogo, la titolarità del diritto di proprietà di 89 immobili nella medesima provincia evidenzia la continuità dell’attività imprenditoriale, nella misura in cui è ragionevole ritenere che quantomeno una consistente parte di tali immobili, secondo l’id quod plerumque accidit, sia destinata proprio all’esercizio dell’attività imprenditoriale di compravendita e non al godimento esclusivo del consumatore.

Va poi evidenziato che le argomentazioni dell’opponente si sono limitate ad un profilo meramente estrinseco di solo richiamo alla propria natura di persona fisica; il che, come sopra esposto, non costituisce profilo dirimente nel qualificare un dato soggetto come consumatore, poiché anche le persone fisiche ben possono essere qualificate come imprenditori, nel caso in cui l’attività negoziale sia posta in essere anche solo per uno scopo connesso a quello imprenditoriale dell’attività da esse svolta.

Ora, a fronte della esistenza di una ditta individuale, dunque di un’attività imprenditoriale, tuttora attiva, avente ad oggetto esattamente l’attività di compravendita di beni propri ed a fronte pure di un numero consistente di immobili (89) situati nella medesima provincia, è fondato ritenere che anche la compravendita immobiliare oggetto di giudizio, relativa ad un terreno ad uso commerciale sito nella provincia di Padova e promesso in vendita per la somma considerevole di euro 746.460,00, sia stata posta in essere quantomeno per un scopo connesso a quello dell’attività imprenditoriale di Carletto […], se non proprio nell’esercizio di tale attività.

Sul punto, va evidenziato che l’opponente, pur essendovi tenuto a fronte dei pregnanti elementi sopra descritti, non ha chiarito quale sarebbe stato il suo scopo consumeristico, diverso cioè da quello imprenditoriale o connesso a questo, che avrebbe giustificato l’operazione negoziale.

In altre parole, un consistente profilo di genericità delle difese dell’opponente è ravvisabile nella circostanza per cui egli si è limitato ad affermare la propria natura consumeristica, senza tuttavia chiarire quale allora lo scopo non imprenditoriale della compravendita, a fronte di così pregnanti elementi che depongono nel senso opposto.

Sul punto, si rileva che la Suprema Corte ha più volte affermato che “ai fini dell’assunzione della veste di consumatore l’elemento significativo non è il “non possesso”, da parte della “persona fisica” che ha contratto con un “operatore commerciale”, della qualifica di “imprenditore commerciale” bensì lo scopo (obiettivato o obiettivabile) avuto di mira dall’agente nel momento in cui ha concluso il contratto, con la conseguenza che la stessa persona fisica svolgente attività imprenditoriale o professionale deve considerarsi “consumatore” quando conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività” (Cass. 6578/2021).

Nel caso di specie, l’opponente non ha chiarito quali le esigenze della vita quotidiana realizzate con l’operazione negoziale di cui si discute, avente ad oggetto la compravendita di un terreno ad uso commerciale, destinato all’edificazione di un immobile destinato ad attività commerciale da parte di una catena di supermercati, per il controvalore di 746.000,00 euro; né, più in generale, ha specificato quale l’obiettivo, diverso da quello imprenditoriale ricollegabile all’attività svolta sotto forma di ditta individuale, egli avrebbe perseguito con il contratto preliminare stipulato con […].

Fatte tali premesse, si evidenzia che tutte le circostanze di fatto che emergono dagli atti depongono nel senso del fine imprenditoriale dell’operazione negoziale, a fronte: i) sia dell’ingente volume dell’operazione negoziale, pari ad euro 746.460,00, che di per sé sola già esclude il soddisfacimento di esigenze della vita quotidiana; ii) sia della finalità ultima del preliminare oggetto di causa, funzionale cioè, non già ad una compravendita tra privati destinata all’utilizzo abitativo di un immobile, quanto piuttosto alla compravendita per ingente somma di un terreno da parte di una società per azioni operante nella grande distribuzione interessata all’edificazione di un supermercato; iii) sia dell’impegno assunto dal promittente venditore stesso di provvedere all’acquisizione dei necessari permessi pubblici, il che denota le capacità tecniche di questi e la sua conoscenza del settore edilizio e delle sue caratteristiche.

Da ultimo, dalla lettura della richiesta di proroga del termine di restituzione della caparra confirmatoria inviata dall’opponente ad […] s.p.a. (cfr. doc. 12 opposta), emerge ulteriormente la natura imprenditoriale dell’opponente nell’operazione negoziale oggetto di causa.

Nella specie, con tale comunicazione il promissario venditore, odierno opponente, ha offerto alla promissaria acquirente, quale “garanzia” per la restituzione della caparra, attivabile a semplice richiesta di questa, cinque lotti edificabili, diversi da quello oggetto del preliminare, di sua proprietà, ciascuno del valore di euro 120.000,00.

Sempre in tale comunicazione, l’opponente ha altresì evidenziato che erano pendenti trattative con altri potenziali acquirenti dei lotti facenti parte del Comparto 26, ove la struttura commerciale della convenuta opposta doveva essere costruita.

Dal tenore complessivo della comunicazione, emerge:

– Da un lato, che il promissario venditore era in posizione di parità contrattuale con la promissaria acquirente, tanto da offrire ben cinque lotti di sua proprietà di rilevante valore ciascuno a garanzia della restituzione della caparra;

– Dall’altro lato, che le altre operazioni di vendita dei lotti di sua proprietà erano condotte nell’interesse della sua attività imprenditoriale di compravendita immobiliare.

In definitiva, l’opponente ha operato nell’operazione negoziale di cui è causa in veste non consumeristica, nella misura in cui la finalità perseguita costituisce diretta espressione della sua attività imprenditoriale di compravendita su beni propri.

Sull’eccezione di incompetenza, sull’eccezione di nullità della condizione risolutiva di cui all’art. 4 del contratto e sulle ulteriori contestazioni: infondatezza.

Posta l’inapplicabilità della disciplina consumeristica al caso di specie, vi è rigetto dell’eccezione di incompetenza, argomentata sulla scorta dell’asserita prevalenza del foro consumeristico individuato nel Tribunale di Rovigo.

Il contratto preliminare di cui è causa, concluso nell’esercizio dell’attività imprenditoriale o con finalità connesse a questa, sia da parte dell’opponente che da parte dell’opposta, prevede infatti una clausola di individuazione del foro pattizio nel Tribunale di Padova.

L’eccezione di incompetenza è dunque infondata.

Allo stesso modo, data l’inapplicabilità della disciplina consumeristica, vi è rigetto dell’eccezione di nullità, per affermata vessatorietà, della clausola contrattuale che prevedeva la condizione risolutiva del preliminare di vendita del 29/3/2019 (art. 4).

*

Quanto alla contestazione relativa all’impossibilità di tale condizione risolutiva, essa pure è infondata.

È opportuno in primo luogo riportare il contenuto della pattuizione trasfusa nell’art. 4 del contratto preliminare: “è stabilita di comune accordo la seguente condizione risolutiva: a) che non venga approvata a cure e spese delle Ditte proprietarie la Variante al Piano degli Interventi al fine di adattare l’assetto urbanistico comprendente il Terreno in conformità alla scheda tecnico/progettuale allegata al presente contratto sub. B) nonché di rendere il comparto autonomo ai fini dell’esatta realizzazione del progetto di Promissaria Acquirente, per consentire la realizzazione al suo interno di una media struttura commerciale […]”.

Fatta tale premessa, la contestazione dell’opponente, in punto ad impossibilità della condizione risolutiva, argomentata sulla scorta dell’impossibilità tecnica di ottenere le richieste autorizzazioni pubbliche nel breve lasso di tempo compreso tra la data di sottoscrizione del preliminare (29/3/2019) e quella ultima per l’avveramento della condizione (30/9/2019), è infondata.

In primo luogo, infatti, l’operazione negoziale va valutata nel suo complesso, considerando che il preliminare oggetto di causa seguiva un precedente preliminare di compravendita, dal medesimo contenuto, richiamato nel contratto oggetto di causa anche ai fini della quantificazione della caparra confirmatoria, stipulato il 28/6/2018, risolto proprio per l’impossibilità per il promittente venditore di acquisire le necessarie autorizzazioni pubbliche entro il termine fissato dal contratto.

Sotto tale profilo, alla luce dell’intera operazione negoziale, il termine concesso al promittente venditore per acquisire infine tali autorizzazioni è da individuarsi nel lasso di tempo compreso tra il 28/6/2018 ed il 30/9/2019 (data ultima di proroga concessa dall’acquirente), dunque nell’ampio lasso di tempo di oltre un anno.

Anche poi a volere considerare il solo contratto preliminare del 29/3/2019, va dato atto, non solo che il lasso di tempo intercorrente tra la sottoscrizione di tale contratto ed il 30/9/2019, consiste in circa 6 mesi, dunque in un ampio lasso di tempo; ma va evidenziato, altresì, che la convenuta ha dedotto che, a fronte di variante al progetto approvata dal Comune di […] (PD) in data 6/6/2019, il residuo lasso di tempo sarebbe stato certamente sufficiente a concludere l’iter autorizzativo, con analitica indicazione di tutti gli ulteriori incombenti e delle relative tempistiche, compatibili con il termine ultimo del 30/9/2019 (vedi deduzioni pag. 20 comparsa di costituzione).

Tali deduzioni sono rimaste prive di contestazione dell’opponente: esse sono dunque da considerare come pacifiche.

Non sussiste pertanto impossibilità della condizione risolutiva espressa del contratto preliminare di compravendita.

Da ultimo, è infondata anche l’ulteriore contestazione dell’opponente in punto a violazione, da parte della promissaria acquirente, del canone di buona fede e correttezza di cui all’art. 1358 c.c. in pendenza della condizione.

Sul punto, si evidenzia preliminarmente che spetta alla parte interessata la dimostrazione del fatto che la controparte contrattuale abbia tenuto un comportamento idoneo ad impedire l’avveramento della condizione, e si sia in tal modo reso inadempiente agli obblighi generali di buona fede e correttezza oggetto della previsione di cui all’art. 1358 c.c. (Cass. 22046/2018).

Nel caso di specie, le deduzioni dell’opponente si sono arrestate ad una mero profilo di richiamo della disciplina, senza argomentazione o descrizione della pretesa condotta dell’opposta contraria a buona fede; in tal senso, la contestazione è generica, a maggior ragione considerando che era l’opponente medesimo, ossia il promittente venditore, ad essere stato individuato nel contratto preliminare come colui che si sarebbe dovuto occupare dell’acquisizione dei necessari permessi pubblici per il progetto edificatorio dell’opposta, da cui l’impossibilità stessa di ipotizzare un comportamento dell’acquirente tale da condurre alla realizzazione della condizione risolutiva.

In definitiva, l’opposta, promittente acquirente, ha diritto alla restituzione della caparra confirmatoria versata in esecuzione del contratto preliminare risolto, peraltro domandata in assenza di maggiorazione od interessi di sorta ed illegittimamente trattenuta dal promittente venditore.

Vi è, pertanto, rigetto integrale dell’opposizione, con conferma in ogni sua parte del decreto ingiuntivo opposto.

Le spese di lite.

Così pronunciato, le spese di lite seguono la soccombenza e vengono poste a carico dell’opponente nella liquidazione di cui al dispositivo che segue; la liquidazione è operata in applicazione dei parametri di cui al D.M. n. 55/2014 e seguenti modificazioni, con riferimento ai valori medi previsti per lo scaglione fino a € 520.000,00, così individuato sulla base del decisum, con riduzione ai valori minimi per la fase decisionale, attesa la sussistenza di sola discussione orale finale.

Le spese del monitorio restano regolate dal decreto ingiuntivo n. 2130/2021, di cui vi è integrale conferma.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla causa che reca numero 7394/2021, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

  1. Rigetta l’opposizione.
  2. Conferma in ogni sua parte il decreto ingiuntivo n. 2130/2021: capitale ed interessi quali ivi effigiati; spese del monitorio quali ivi liquidate.
  3. Lo conferma esecutivo.
  4. Condanna l’opponente al pagamento nei confronti dell’opposta delle spese di lite del presente processo che si liquidano in euro 19.400,00 per compensi; spese generali pari al quindici per cento della somma che immediatamente precede; infine, IVA e Cassa forense sulle prime due voci.

Padova, 29 marzo 2023

Il Giudice

dott. Vincenzo Cantelli

Diritto Penale

Pubblico esercizio: nesso di causalità tra violazione di norme antinfortunistiche e lesioni subite da avventori (Cass. n. 13321/18)

Cass. pen., Sez. IV, Sentenza del 22/03/2018, n. 13321

Pubblico esercizio – Lesioni subite da avventori – Adozione delle misure di sicurezza – Nesso di causalità tra violazione e lesioni – Rissa nel locale – Non rileva – Omesso ancoraggio al pavimento della stufa a gas per esterno, come richiesto dalle istruzioni d’uso e dalla normale prudenza – Rileva

 

LA SENTENZA

(omissis)

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Bologna, con la sentenza in epigrafe, confermava la condanna resa dal Tribunale di Reggio Emilia nei confronti di (…) per le lesioni subite la sera del (…) da (…) e lo condannava al risarcimento dei danni subiti dalla persona offesa, costituitasi parte civile, alla quale assegnava una provvisionale immediatamente esecutiva.

2. Secondo la ricostruzione in fatto operata dalla Corte territoriale, la sera dell’evento la (…) si trovava seduta su un divanetto all’esterno della discoteca (…), di cui era amministratore unico l’imputato, ed era stata urtata alle gambe da una stufa a gas, “c.d. fungo”, rovesciata da alcuni avventori del locale durante una rissa, subendo gravi lesioni.

Il Servizio Prevenzione Infortuni della ASL aveva appurato che il “fungo” non era stato ancorato o fissato al suolo, né tanto meno immobilizzato con zavorre di altro tipo, ma non aveva accertato se la stufa fosse del modello corrispondente a quello per cui il fabbricante aveva indicato la necessità di un fissaggio al suolo.

Tuttavia, indipendentemente dall’obbligo di fissaggio al suolo contenuto nel manuale d’uso, i giudici di merito ritenevano che il gestore del locale avesse comunque l’obbligo di posizionare le stufe in maniera adeguata, in modo da garantire la sicurezza per il personale e per gli avventori, e dunque fosse tenuto ad adottare le misure nello specifico più idonee ad assicurare l’equilibrio del fungo, in modo da evitare che in caso di vento o di urto accidentale – nel caso di specie dovuto ad una rissa – potesse rovesciarsi recando danno alle persone. Rilevavano ancora che il nesso di causalità non era stato interrotto dalla condotta dei terzi soggetti, che avevano scatenato la rissa: la mancanza di fissaggio al pavimento, previsto dal costruttore nel libretto di istruzioni relativo a due delle tre stufe presenti nel locale, di cui aveva riferito il funzionario ASL (…), avrebbe dovuto garantire proprio una maggiore tenuta delle stesse, ed analogo sistema di zavorra avrebbe dovuto essere curato dal gestore del locale per aumentarne il peso, proprio al fine di evitare spostamenti o rovesciamenti, quale quello verificatosi in concreto. Vi era stata dunque una omissione colposa da parte del (…), da porsi in rapporto di causalità con l’evento, in quanto si era verificato proprio quel rischio di caduta che l’ancoraggio o l’appesantimento della stufa avrebbe evitato. Di contro, la causa sopravvenuta, la rissa, non aveva innescato un rischio nuovo ed incommensurabile, del tutto incongruo rispetto a quello attivato dalla prima condotta, ma proprio la concretizzazione di quel medesimo rischio di rovesciamento della stufa, che siccome non fissata a terra e non zavorrata, sarebbe stato evitato se l’imputato ne avesse curato il posizionamento in sicurezza.

3. Ha proposto ricorso per cassazione il (…), tramite il difensore di fiducia, affidato a tre distinti motivi.

Con il primo lamenta violazione dell’art. 521 c.p.p. All’imputato era stata contestata la violazione dell’art. 71, comma 4, D.lgs. n. 81/2008 – che impone al datore di lavoro di prendere le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano installate ed utilizzate in conformità alle istruzioni d’uso. L’istruttoria invece non aveva conferito certezze al fatto che le istruzioni d’uso acquisite agli atti che prescrivevano l’ancoraggio al suolo della stufa si riferissero proprio a quella rovinata addosso alla persona offesa: per tale ragione la colpa dell’imputato era stata ravvisata piuttosto nella violazione di un obbligo di garanzia generico, attinente al posizionamento della stufa, con un’interpretazione della norma in via analogica in malam partem non consentita.

Con il secondo deduce violazione degli artt. 590 e 40 c.p. L’obbligo di garanzia in capo all’imputato era preordinato a prevenire un evento ben diverso rispetto a quello verificatosi, cioè evitare le cadute della stufa eventualmente dovute al vento, mentre nessun profilo di colpa poteva essere ravvisato a suo carico per l’evento rissa, per evitare il quale egli aveva predisposto anche un servizio d’ordine privato interno alla discoteca.

Con il terzo motivo si duole infine del vizio della motivazione della impugnata sentenza, che aveva individuato apoditticamente una posizione di garanzia non codificata, né desumibile dalle istruzioni della stufa a gas.

Considerato in diritto

1. I motivi di ricorso sono manifestamente infondati e possono essere analizzati congiuntamente in quanto attengono tutti alla posizione di garanzia che il ricorrente contesta possa essere ravvisata a suo carico per legge ovvero in base alle istruzioni d’uso dei riscaldatori.

2. Quanto alla lamentata violazione dell’art. 521 c.p.p., si osserva che all’imputato era stata contestata una colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché nella violazione dell’art. 71, comma 4, D.lgs. n. 81/2008, per aver omesso di ancorare al pavimento le stufe a gas per esterno con alloggiamento per bombola, come richiesto dalle istruzioni d’uso.

La Corte di Bologna, con pertinente osservazione, interpretando la ratio della norma antinfortunistica, ha ritenuto che tra gli obblighi scaturenti dall’utilizzo delle stufe a fungo vi fosse quello di fissarle o, quanto meno, zavorrarle, in modo da prevenire infortuni o eventi lesivi più gravi, determinati da un loro spostamento accidentale. Del resto, nel caso di specie, come affermato dal funzionario del servizio di prevenzione della ASL, la cui deposizione è stata richiamata in sentenza, ciò era imposto dai manuali di istruzioni d’uso di due delle tre stufe rinvenute sul posto, e per coerenza tale precauzione doveva essere estesa a tutte, al fine di impedire che fattori esterni, comunque prevedibili, potessero spostarle o rovesciarle, facendole rovinare sulle persone.

La posizione di garanzia dunque è stata correttamente individuata in capo a chi esercitava in concreto i poteri del datore di lavoro, ovvero al (…), che quale gestore del locale aveva assunto gli obblighi previsti dal D.lgs. n. 81/2008, compresi quelli inerenti la prevenzione degli infortuni subiti da terzi estranei all’attività di impresa, ed era tenuto ad una corretta gestione della fonte di pericolo.

Giova in questa sede ribadire che l’obbligo di garantire i requisiti di sicurezza di tutte le attrezzature di cui si serve l’imprenditore, è posto a tutela non solo dei propri dipendenti, ma dei terzi che vengano a contatto con il luogo di esercizio dell’attività di impresa.

Nel caso particolare il (…), quale amministratore unico della società titolare della discoteca (…) era tenuto a gestire le fonti di pericolo presenti nel locale e negli spazi esterni di pertinenza, sia per garantire la sicurezza dei propri dipendenti, sia a tutela dei numerosi frequentatori della discoteca, prevalentemente persone giovani, proprio in considerazione della natura dell’attività esercitata, in orario notturno, in cui non poteva considerarsi imprevedibile o abnorme – ai fini dell’interruzione del nesso di causalità – anche un acceso litigio o addirittura una rissa.

Del resto, è di comune esperienza, e ne fa richiamo anche il ricorrente laddove afferma di aver predisposto un servizio di sicurezza, la presenza nei locali notturni di vigilanti, proprio per evitare possibili situazioni di pericolo dovute a liti tra i presenti, magari originate dall’uso di alcolici o da comportamenti alterati.

Ciò evidentemente non basta ad escludere all’origine la possibilità di un comportamento violento e dunque la prevenzione degli infortuni deve tenere conto anche di comportamenti imprudenti degli avventori, che comunque non si pongano in termini di assoluta eccentricità rispetto al rischio definito dalla norma cautelare violata: nell’episodio per cui è processo non si è configurata l’interruzione del nesso di causalità, poiché in un locale ove è normale l’assembramento di persone è doveroso da parte del gestore assicurare l’assenza di pericoli, come sottolineato dalla Corte di Bologna.

Una volta scoppiata la rissa all’esterno del locale, l’utilizzo da parte dell’imputato dei riscaldatori senza il rispetto delle regole imposte dalle istruzioni d’uso e di normale prudenza aveva costituito causa dell’evento occorso alla (…) e ciò perché i riscaldatori posti all’esterno della discoteca mancavano dei requisiti di sicurezza, circostanza sulla quale l’impugnata sentenza si sofferma diffusamente, sulla scorta di quanto inequivocabilmente accertato nel corso del processo.

Ed allora, una volta esclusa l’eccezionalità dell’evento che aveva provocato il rovesciamento della stufa, appurato che i riscaldatori non erano fissati al suolo e perciò erano instabili, affermato altresì che sussisteva in capo al (…) l’obbligo di garantire la sicurezza delle attrezzature a tutela dei dipendenti e dei frequentatori della discoteca, che il comportamento diligente omesso – ovvero il corretto ancoraggio o appesantimento dei riscaldatori – ne avrebbe evitato il rovesciamento, appare immune da censure la configurazione in capo al ricorrente di una condotta colposa, che ha costituito causa dell’evento e che il rispetto delle norme precauzionali avrebbe evitato, trattandosi proprio della concretizzazione di quel rischio di caduta/rovesciamento evitabile con il corretto posizionamento e ancoraggio dei riscaldatori secondo istruzioni da manuale.

3. A tali considerazioni segue la declaratoria di inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi ragioni di esonero (Corte Cost., sent. n. 186/2000), nonché la rifusione delle spese in favore della parte civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila euro alla cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile (…) (…) che liquida in complessivi euro 2.500,00 oltre spese generali nella misura del 15%, cpa e iva.

Circolazione stradale Danni al veicolo

Danno da fauna selvatica (incidente con cervo): appello avverso sentenza GdP di Belluno (Trib. Belluno, Dr.ssa Santini, sent. 435/22)

Trib. di Belluno, Giudice Dr.ssa Chiara Sandini, Sentenza n. 435/2022, pubbl. il 28/11/22 (RG 147/2022)

IL FATTO

Una Società proponeva appello avverso la sentenza del Giudice di Pace di Belluno, deducendo quanto segue. In data 28.12.2018 alle ore 20:55, circa il sig. XXX stava percorrendo la Strada Regionale 203 Agordina, in località Candaten del Comune di Sedico (BL), in direzione Agordo, a bordo del veicolo di proprietà della società appellante, allorquando un cervo selvatico di grossa taglia, proveniente dal terreno circostante la carreggiata, attraversava improvvisamente la sede stradale, impattando contro il veicolo. La collisione, provocava la morte del cervo e danni materiali al veicolo.

Con la sentenza impugnata il Giudice di Pace di Belluno riteneva sussistente la responsabilità della Regione Veneto ai sensi dell’art. 2052 c.c., ma riduceva del 50% la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno, ritenendo che l’attrice non avesse superato la presunzione posta a suo carico dall’art. 2054 c.c., allegando e dimostrando di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida.

Il giudice di prime cure condannava pertanto la Regione Veneto a pagare all’attrice soltanto la metà del danno subìto compensando le spese processuali fra le parti.

Il Tribunale di Belluno, in sede si appello, facendo ricorso alla prova per presunzioni, riterrà viceversa provato che il conducente avesse tenuto, in quelle circostanze di tempo e di luogo, una condotta di guida prudente avendo questi dimostrato di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno.

LA SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO

TRIBUNALE ORDINARIO DI BELLUNO

Il Tribunale di Belluno in composizione monocratica, nella persona del giudice dr.ssa Chiara Sandini, ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nella causa civile iscritta al n. 147/2022 R.G. promossa

da

IL XXX SRL, con l’avv. CALVELLO CLAUDIO, con domicilio eletto in VIA PREVITALI, 30 ad ABANO TERME (PD), come da mandato in atti

– ATTRICE APPELLANTE

contro

REGIONE VENETO, con l’avv. XXX, con domicilio eletto in XXX a TREVISO, come da mandato in atti

– CONVENUTA APPELLATA

Oggetto: Azioni di competenza del Giudice di Pace in materia di risarcimento danno

CONCLUSIONI di parte attrice appellante:

“Nel merito in via principale, Voglia l’On.le Tribunale adito, in accoglimento del presente appello, riformare la sentenza del Giudice di Pace di Belluno n. 191/2021 depositata in Cancelleria in data 08.07.2021 e non notificata, per i motivi di cui in espositiva e, per l’effetto, accertato e dichiarato che il veicolo di proprietà di Il XXX S.r.l. e condotto dal Sig. XXX ha subìto danni materiali a seguito dell’attraversamento repentino di un cervo di grosse dimensioni nella sede stradale nei tempi e modi di cui in narrativa, condannare la Regione Veneto in persona del Presidente, legale rappresentante pro tempore, al pagamento dei danni in favore di Il XXX S.r.l. che – già detratto quanto versato dall’odierna appellata in forza della sentenza di primo grado (€ 2.470,40=) -, si quantificano in € 2.470,40=, o in quella diversa maggiore o minore somma che dovesse venire accertata in corso di causa e da determinarsi, all’occorrenza, in via equitativa ex art. 1226 c.c.. In ogni caso: con vittoria di spese e competenze di lite (integrali) per entrambi i gradi di giudizio da distrarsi a norma dell’art. 93 c.p.c. a favore dell’avv. Claudio Calvello quale procuratore antistatario nonché con sentenza munita della clausola di provvisoria esecuzione. In via istruttoria Solo ove ritenuto dall’Ill.mo Tribunale strettamente necessario, si chiede l’ammissione delle istanze istruttorie non ammesse in primo grado per tutte le ragioni esposte nella parte motiva del presente appello (capitolo I) e, nello specifico, di disporre CTU ergonomico-ricostruttiva del sinistro per cui è causa e/o di ammettere i capitoli di prova che si riportano in calce onde consentire all’odierna appellante di comprovare, tramite l’escussione dei testi indicati, la regolare condotta di guida tenuta dal conducente del veicolo attoreo. Capitoli di prova (numerazione utilizzata in primo grado): 5. Vero che in data 28.12.2018, alle ore 20:55 ca., Lei percorreva, a bordo del veicolo BMW X1, targato XXX, in qualità di passeggero, la Strada Regionale 203 Agordina (km 12+600), in località Candeten del Comune di Sedico (BL). 6. Vero che, nelle circostanze di luogo e di tempo di cui al capitolo di prova n. 5, il veicolo BMW X1, targato XXX, improvvisamente si arrestava in mezzo alla strada. 7. Vero che, nelle circostanze di luogo e di tempo di cui al capitolo di prova n. 5, il brusco arresto del veicolo era dovuto all’impatto con un cervo selvatico di grossa taglia improvvisamente sbucato dal lato sinistro del senso di marcia del veicolo attoreo. 8. Vero che, nelle circostanze di luogo e di tempo di cui al capitolo di prova n. 5, il cervo di cui al precedente capitolo di prova nel tentativo di attraversare repentinamente la sede stradale, andava ad impattare contro la parte latero-anteriore sinistra del veicolo attoreo. 9. Vero che, nelle circostanze di luogo e di tempo di cui al capitolo di prova n. 5, il conducente del veicolo attoreo sig. XXX non ha avuto neppure il tempo di attuare una pur minima manovra di fortuna atta ad evitare l’impatto con il cervo. 10. Vero che, nelle circostanze di luogo e di tempo di cui al capitolo di prova n. 5, il conducente del veicolo BMW X1, targato XXX, nel quale Lei si trovava nella qualità di trasportato, in considerazione delle circostanze di tempo e di luogo teneva una guida particolarmente prudente. 11. Vero che, nelle circostanze di luogo e di tempo di cui al capitolo di prova n. 5, il conducente del veicolo BMW X1, nel quale Lei si trovava nella qualità di trasportato, in considerazione delle circostanze di tempo e di luogo viaggiava ad una velocità moderata.”

***

CONCLUSIONI di parte convenuta appellata:

“NEL MERITO: Respingersi per le causali addotte in narrativa l’appello proposto da IL XXX SNC. Spese e compensi di causa oltre spese generali al 15% e C.P.A. integralmente rifusi. NEL MERITO, IN SUBORDINE: Nella denegata e non creduta ipotesi di condanna della REGIONE VENETO, moderarsi le pretese di parte attrice secondo quanto verrà provato in corso di causa nonché ai sensi dell’art. 1227 c.c. e/o 2054 c.c. Spese e compensi di causa oltre spese generali al 15% e C.P.A. rifusi o quanto meno compensati. IN ISTRUTTORIA: In via istruttoria, e senza che ciò comporti inversione dell’onere della prova, si chiede: ➢ disporsi ordine di esibizione a carico dell’attrice della copia integrale della polizza r.c.a. operante al momento del sinistro, onde verificare la presenza di copertura kasko nonché di produrre la documentazione attestante eventuali indennizzi già percepiti; ➢ disporsi CTU descrittiva dello stato dei luoghi in particolare per verificare la presenza di cartelli di pericolo attraversamento animali selvatici sulla SR 203; ➢ disporsi l’assunzione di informazioni e/o esibizione ex art. 210/213 c.p.c. da parte di VENETO STRADE SPA sulla presenza di cartelli di pericolo attraversamento animali selvatici sulla SR 203; ➢ ammettersi prova per interpello e testi sulle seguenti circostanze da intendersi in forma interrogativa e precedute dalla locuzione “vero che”: 1)lungo la SR 203 Agordina in località Candaten del Comune di Sedico (BL) con direzione Agordo sono presenti i cartelli di pericolo attraversamento animali selvatici (doc.ti 8 e 11 della convenuta; doc. 5 attoreo); 2)i predetti cartelli sono posizionati circa 3-400 metri prima del luogo ove avveniva il sinistro (doc.ti 8 e 11 della convenuta; doc. 5 attoreo).”

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con atto di citazione notificato dalla società Il XXX s.r.l. quest’ultima proponeva appello avverso la sentenza n. 191/2021 del Giudice di Pace di Belluno, pronunciata all’esito della causa civile R.G. n. 1140/2020 e depositata in cancelleria in data 08.07.2021.

La società attrice deduceva che, in data 28.12.2018 alle ore 20:55, circa il sig. XXX stava percorrendo la Strada Regionale 203 Agordina, in località Candaten del Comune di Sedico (BL), in direzione Agordo, a bordo del veicolo BMW X1, targato XXX, di proprietà della società Il XXX S.r.l., allorquando al Km 12+600 un cervo selvatico di grossa taglia, proveniente dal terreno circostante la carreggiata, attraversava improvvisamente la sede stradale, impattando contro il veicolo. La collisione, secondo quanto allegato dall’attrice, provocava la morte del cervo e danni materiali al veicolo: venivano in particolare danneggiati il faro e il fendinebbia anteriore sinistro, il cofano, e la meccanica interna, al punto che il veicolo risultava non marciante.

Con la sentenza impugnata il Giudice di Pace di Belluno riteneva sussistente la responsabilità della Regione Veneto ai sensi dell’art. 2052 c.c., ma riduceva del 50% la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno, complessivamente pari ad € 4740,81, ritenendo che l’attrice non avesse superato la presunzione posta a suo carico dall’art. 2054 c.c., allegando e dimostrando di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida.

Il giudice di prime cure condannava pertanto la Regione Veneto a pagare all’attrice la somma di € 2.370,40 (pari alla metà del danno liquidato nella misura di € 4.740,81), oltre interessi di legge dalla sentenza al saldo e compensava le spese processuali fra le parti in ragione della soccombenza reciproca e della innovativa giurisprudenza della Cassazione in materia.

L’appellante precisava in atti di impugnare la predetta sentenza nelle parti in cui:

I) il giudice di prime cure aveva accolto parzialmente (50%) la domanda attorea affermando che “[…] parte attrice non ha superato la presunzione posta a suo carico dall’art. 2054 c.c., allegando e dimostrando di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. In particolare, parte attrice non ha allegato in fatto quale era il limite massimo di velocità nel tratto di strada ove è avvenuto il sinistro, la velocità di percorrenza del tratto di strada anzidetto da parte del veicolo attoreo al momento del sinistro e che la velocità medesima era adeguata allo stato dei luoghi, entro la prima udienza, con conseguente preclusione ai sensi dell’art. 320, c. III, c.p.c.. […]” (cfr. pag. 2 sentenza);

II) il giudice di prime cure aveva compensato le spese di lite tra le parti “[…] per effetto della soccombenza reciproca e del fatto che la domanda è stata accolta solo a seguito della innovativa giurisprudenza della Cassazione sopra indicata.” (cfr. pag. 4 sentenza).

 

Con comparsa del 20.5.2022 la Regione convenuta chiedeva, nel merito, il rigetto dell’appello, contestando alcune delle voci di danno richieste dall’attrice, relative ai costi di riparazione, al danno da fermo tecnico ed alle spese legali stragiudiziali; in subordine chiedeva “moderarsi le pretese di parte attrice secondo quanto verrà provato in corso di causa nonché ai sensi dell’art. 1227 c.c. e/o 2054 c.c.”.

La causa veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni sulla base delle risultanze documentali.

All’udienza del 14/07/2022, sostituita dalla trattazione scritta, le parti precisavano le conclusioni nei termini indicati in epigrafe e la causa veniva trattenuta in decisione, con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c. per memorie conclusionali e repliche.

***

Sul primo motivo d’appello relativo alla riduzione del 50% del danno liquidato, per non aver il conducente dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida.

L’applicabilità degli artt. 2052 c.c. e 2054 c.c. in materia di sinistri causati dalla fauna selvatica è conforme alla attuale giurisprudenza della Cassazione e, in ogni caso, non è in contestazione tra le parti (v. Cassazione civile sez. VI, 16/09/2022, n. 27284 secondo cui “i danni cagionati dalla fauna selvatica sono risarcibili dalla pubblica amministrazione a norma dell’articolo 2052 cc, giacché, da un lato, il criterio di imputazione della responsabilità previsto da tale disposizione si fonda non sul dovere di custodia, ma sulla proprietà o, comunque, sull’utilizzazione dell’animale e, dall’altro, in quanto le specie selvatiche protette ai sensi della legge n. 157/1992 rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato e sono affidate alla cura e alla gestione di soggetti pubblici in funzione della tutela generale dell’ambiente e dell’ecosistema”; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8206 del 24/03/2021 secondo cui “In tema di danni cagionati dalla fauna selvatica, il titolo di responsabilità fondato sull’art. 2052 c.c., rispetto al quale la legittimazione passiva spetta in via esclusiva alla regione quale ente titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative concernenti l’attività di tutela e gestione della fauna selvatica, ancorché eventualmente svolte, per delega o in base a poteri propri, da altri enti, può concorrere con quello di cui all’art. 2043 c.c., che, oltre a costituire il fondamento dell’azione di rivalsa della regione nei confronti degli enti a cui sarebbe in concreto spettata, nell’esercizio delle funzioni proprie o delegate, l’adozione delle misure che avrebbero dovuto impedire il danno, consente il diretto esercizio dell’azione risarcitoria anche nei loro confronti da parte del danneggiato, sul quale, peraltro, grava l’onere di provare la condotta colposa causalmente efficiente dell’ente pubblico (nella specie, la provincia), la cui eventuale omissione rispetto alla predisposizione di segnali o di altri presidi a tutela dei veicoli circolanti, deve essere valutata “ex ante”, avuto riguardo alla concreta situazione di pericolo sussistente sulla strada; Cass. Sez. 3 , Ordinanza n. 13848 del 06/07/2020 secondo cui “grava sul danneggiato l’allegazione e la dimostrazione che il pregiudizio lamentato sia stato causato dall’animale selvatico (cioè appartenente ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla l. n. 157 del 1992 o, comunque, rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato), la dinamica del sinistro, il nesso causale tra l’agire dell’animale e l’evento dannoso subito nonché – ai sensi dell’art. 2054, comma 1, c.c. – di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida. Spetta, invece, alla Regione fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che il comportamento dell’animale si è posto del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa del danno autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure – concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell’ambiente e dell’ecosistema – di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi”).

Il primo motivo d’appello va ritenuto fondato dovendosi ritenere provato, sulla base di presunzioni ex art. 2729 c.c., che il conducente abbia fatto tutto il possibile per evitare il danno e che abbia in particolare adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida, nei termini previsti dall’art. 2054 c.c.

Lo si evince considerando, complessivamente, le seguenti circostanze:

a) non sono state contestate nei confronti del conducente infrazioni del Codice della Strada e non sono stati eseguiti rilievi planimetrici da parte degli agenti intervenuti sul luogo del sinistro; rilievi, questi, che sarebbero verosimilmente stati fatti nell’ipotesi in cui la dinamica del sinistro fosse risultata dubbia;

b) il conducente e i passeggeri, secondo quanto riportato nel verbale relativo al sinistro, non hanno subito lesioni per effetto dello scontro; è ragionevole supporre che le conseguenze dello scontro sarebbero state ben più gravi qualora il conducente avesse tenuto una velocità elevata, tenuto conto delle rilevanti dimensioni del cervo. Ragionando a contrario, è pertanto ragionevole desumere che la velocità tenuta dal conducente fosse contenuta;

c) i tre passeggeri presenti sul mezzo in occasione del sinistro hanno confermato detta circostanza, dichiarando che il conducente stava procedendo a velocità moderata, con una condotta di guida prudente (v. doc. 4 fascicolo di primo grado attoreo); pur essendo noto che la testimonianza può assumere valore di prova nell’ambito del processo civile solo se assunta nelle forme di legge, non può negarsi alle predette dichiarazioni scritte una valenza indiziaria, risultando le stesse valutabili unitamente agli ulteriori elementi di prova (cfr. Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 24976 del 23/10/2017 secondo cui “Le dichiarazioni scritte, provenienti da terzi estranei alla lite su fatti rilevanti, non possono esplicare efficacia probatoria nel giudizio se non siano convalidate attraverso la testimonianza ammessa ed assunta nei modi di legge ma possono unicamente assumere valore d’indizio, l’utilizzazione del quale costituisce non già un obbligo del giudice del merito, bensì una facoltà, il cui mancato esercizio non può formare oggetto di utile censura in sede di legittimità, sia sotto il profilo della violazione dell’art. 115 c.p.c., sia sotto quello dell’omesso esame su punto decisivo della controversia”).

Sulla base delle suesposte circostanze si deve ritenere che il conducente abbia tenuto una condotta di guida prudente, facendo il possibile per evitare il danno; si deve in particolare ritenere che il cervo, sbucando dalla vegetazione a lato della strada, non potesse pertanto essere avvistato in tempo utile dal conducente il quale, anche a causa dell’orario serale e della stagione invernale, aveva una visibilità ridotta e, pur con una condotta di guida prudente, non poteva evitare lo scontro.

In accoglimento del presente motivo d’appello va pertanto riconosciuta in favore dell’appellante altresì l’ulteriore quota del 50% del danno liquidato, pari ad € 2370,40, oltre interessi legali dalla decisione di primo grado al saldo; la Regione Veneto va pertanto condannata al relativo pagamento in favore dell’appellante.

Non possono invece in questa sede essere riesaminate, in quanto coperte dal giudicato, le singole voci risarcitorie riconosciute dal giudice di prime e contestate in sede di costituzione dalla Regione; non è stato infatti proposto appello incidentale da parte di quest’ultima ai fini di una riforma della sentenza di prime cure sul punto.

***

Sul secondo motivo d’appello relativo alla compensazione delle spese processuali

Per effetto dell’accoglimento del primo motivo d’appello la sentenza di primo grado va parzialmente riformata nei termini poc’anzi esposti; ciò implica un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, in relazione all’esito complessivo della lite (cfr. Cass. Sez. 1 – , Ordinanza n. 14916 del 13/07/2020 secondo cui “Il potere del giudice d’ appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, poiché gli oneri della lite devono essere ripartiti in ragione del suo esito complessivo, mentre in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata dal giudice del gravame soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione”; Cass. Sez. 3 – , Sentenza n. 27606 del 29/10/2019 secondo cui “In tema di impugnazioni, il potere del giudice d’ appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all’esito complessivo della lite, laddove, in caso di conferma della decisione impugnata la decisione sulle spese può essere dal giudice del gravame modificata soltanto se il relativo capo della decisione abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione”).

Nella fattispecie in esame, tenuto conto della soccombenza della convenuta e dell’ormai consolidato orientamento della Cassazione e della giurisprudenza di merito relativo all’applicabilità dell’art. 2052 c.c. ai danni derivanti dalla fauna selvatica, non si ravvisano i presupposti per disporre la compensazione ex art. 92 c.p.c. e, tenuto conto della soccombenza della convenuta, la medesima va condannata ex art. 91 c.p.c. alla rifusione delle spese di lite sia in relazione al primo grado di giudizio che in relazione al secondo.

Le spese di lite vanno liquidate, nella misura indicata nel dispositivo, secondo i valori medi del D.M. 55/2014, aggiornati al D.M. 147/2022.

Va disposta ex art. 93 c.p.c. la distrazione delle predette spese in favore dell’avv. Claudio Calvello dichiaratosi antistatario.

P. Q. M.

Il Tribunale di Belluno, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando:

1) in parziale riforma della sentenza di primo grado appellata, condanna la Regione Veneto  al pagamento della somma ulteriore di € 2370,40, a titolo di risarcimento del danno, in favore della società Il XXX s.r.l., oltre interessi legali dalla data della decisione di primo grado al saldo;

2) condanna la Regione Veneto al pagamento delle spese di lite in favore della parte appellante che si liquidano a) nell’importo di € 800,00 per compensi ed € 125,00 per spese, oltre al 15% per spese generali, IVA e CPA come per legge, per il primo grado e b) nell’importo di € 1701,00 per compensi ed € 180,79 per spese, oltre al 15% per spese generali, IVA e CPA come per legge, per il secondo grado, con distrazione delle stesse ex art. 93 c.p.c. in favore dell’avv. Claudio Calvello dichiaratosi antistatario.

Così deciso il 21/11/2022

Il giudice Dr.ssa Chiara Sandini

Diritto Immobiliare

SUPERBONUS CASA: come tutelarsi e risolvere i problemi (Seminari del 10.11.22 e del 01.12.22)

Nell’ultimo periodo, in Studio, abbiamo ricevuto numerose richieste di consulenza ed assistenza legate al Superbonus casa cosicché abbiamo deciso di organizzare una serie di incontri dedicati a questa tematica per fornire informazioni, aggiornamenti e concrete soluzioni  sugli aspetti più critici riguardanri il bonus.

In particolare, analizzeremo come sia possibile affrontare e risolvere eventuali problematiche che dovessero sorgere mediante l’utilizzo di questo strumento che deve essere visto come un’opportunità (e non come un fardello burocratico).

L’invito, che è rivolto a tutti (addetti ai lavori e non), si terrà giovedì 10 novembre e giovedì 1 dicembre alle ore 21.00, presso lo Studio Legale Calvello

Se la tematica è di Vostro interesse potete contattare lo Studio (049.866.82.02) per riservarVi il posto.

La partecipazione è gratuita.

Modello Organizzativo 231

L’organismo di vigilanza ex Decreto 231: profili di responsabilità civile dei componenti (di R. Quatraro, fonte: Altalex)

L’organismo di vigilanza ex Decreto 231: profili di responsabilità civile dei componenti (di Raffaele Quatraro, fonte: Altalex)

La natura della responsabilità dell’OdV e le ricadute sul piano della prova e della legittimazione attiva all’azione risarcitoria

Il tema della responsabilità dei componenti dell’organismo di vigilanza istituito dal D.lgs. 231/2001 con il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello di organizzazione e gestione e di curare l’aggiornamento dello stesso, è un tema centrale, e tuttora dibattuto, e tale perdurante attualità è in parte da ascrivere alla circostanza che la legislazione, oltre ad aver tratteggiato con contorni giudicati eccessivamente sfumati i compiti ed i poteri di tale organismo, nonché i requisiti richiesti ai membri che lo compongono, ha di fatto lasciato priva di effettiva disciplina la responsabilità, di natura tanto penale, quanto civile, di cui potrebbero essere eventualmente investiti i componenti dell’organismo di vigilanza, nell’ipotesi in cui vengano commessi reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente a seguito dell’insufficiente (se non addirittura omessa) vigilanza sull’applicazione del modello da parte dello stesso OdV.

In ordine ad una possibile responsabilità penalmente rilevante, sebbene alcune recenti pronunce giurisprudenziali parrebbero aver incrinato le certezze sul punto, la dottrina largamente maggioritaria, ed in senso analogo la prassi applicativa, con riferimento alle attribuzioni tipiche dell’OdV – vigilanza sul funzionamento ed osservanza del modello, aggiornamento dello stesso, informazione nei confronti dei vertici – ha escluso la sussistenza di detta responsabilità, sul presupposto che difetterebbe, in capo ai componenti dell’OdV, una posizione di garanzia nei termini di cui all’ art. 40, comma 2, c.p. (non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo).

Ad analoghe conclusioni non può pervenirsi, invece, in ordine ai profili di responsabilità civile, ovvero, all’ipotesi che vi sia una violazione dei doveri incombenti sull’OdV e che da tale violazione derivi un danno all’ente. Peraltro, a latere di tale questione, si pone quella relativa alla legittimazione ad agire, nei confronti dell’organismo, anche, e direttamente, da parte di terzi eventualmente danneggiati.

Quanto alla prima delle due questioni… [continua a leggere qui] –> https://www.altalex.com/documents/news/2022/10/15/organismo-vigilanza-decreto-231-profili-responsabilita-civile-componenti

Modello Organizzativo 231

Responsabilità delle PMI e sistema 231: reati ambientali e societari (di E. Vitelli, fonte www.pmi.it)

Guida all’adozione di modelli organizzativi riconducibili al sistema 231 sulle responsabilità nelle PMI in materia di reati ambientali e societari.

Il d.lgs. 231/01 disciplina la responsabilità amministrativa e penale delle imprese. Nelle PMI, soprattutto per ragioni economiche, però, non è sempre facile ragionare in termini di prevenzione, sia sotto il profilo del business, sia della sicurezza o dell’investimento. Ecco perchè si parla di “modello 231”: per poterlo adattare alle specificità aziendali. Vediamo in dettaglio come funziona.

Sistema 231 e responsabilità d’impresa

Il d.lgs. 231/01 è una sorta di grande calderone che annovera i reati che possono essere commessi nell’interesse e a vantaggio dell’ente, a fronte dei quali è ritenuto responsabile. Con il meccanismo sanzionatorio del sistema 231 l’azienda può dunque svincolarsi da ogni responsabilità solo se dimostra di aver adottato un efficace modello organizzativo e che l’illecito è stato compiuto aggirando i controlli predisposti.

Tipologie di reato

Per le PMI, i reati più rilevanti possono individuarsi in quelli relativi a: rapporti con le Pubbliche Amministrazioni; crimini informatici, reati societari; omicidio colposo e lesioni colpose per violazione della sicurezza nei luoghi di lavoro; auto-riciclaggio; reati ambientali.

Nel 2015 è stata aggiornata la disciplina in materia ambientale e societaria prevedendo nuove ipotesi di reato e innalzando la soglia della sanzione per le imprese. In materia ambientale la legge 68/15, tra le varie modifiche, ha introdotto nel codice penale il nuovo Titolo VI-bis “Dei delitti contro l’ambiente”, prevedendo un elenco di reati, tra cui… [continua a leggere qui] –> https://www.pmi.it

Condominio e Locazione

Condominio: l’amministratore deve fornire i nominativi dei condomini morosi! (Trib. S.M. Capua Vetere, Ord. 01.07.22 – Giudice C. Bianco)

Particolarmente interessante la pronuncia della Dr.ssa Bianco poichè – dopo un esauriente exursus giurisprudenziale sulla legittimazione passiva del condominio -, chiarisce quali siano i dati che l’amministratore è tenuto a fornire su richiesta del creditore. Essi sono:

a) l’elenco nominativo dei condomini morosi completo del codice fiscale, della data e luogo di nascita, della residenza o domicilio;

b) l’indicazione dei millesimi di proprietà e della tabella applicabile;

c) le somme dovute da ciascuno.

Ed invero, giusta il disposto di cui all’art. 63 disp. att. c.c., i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini. L’amministratore perciò è espressamente tenuto a comunicare al creditore il nominativo dei condomini morosi: ne deriva che i condomini in regola con i pagamenti possono essere aggrediti solo dopo che il creditore abbia tentato di soddisfarsi sui condomini inadempienti.

Altrettanto interessante – ai sensi dell’articolo 614 bis c.p.c. – è la fissazione in € 50,00 della somma dovuta all’attrice a carico del Condominio convenuto, per ogni giorno di ritardo nella esecuzione del provvedimento a decorrere dal quindicesimo giorno successivo alla notificazione dello stesso.

L’ORDINANZA

TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE

IV SEZIONE CIVILE

ORDINANZA

ex art. 702 ter, comma 5 c.p.c.

EMESSA NEL GIUDIZIO SOMMARIO DI COGNIZIONE

in epigrafe pendente tra:

[…] in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso gli avvocati […] del Foro di Santa Maria Capua Vetere che la rappresentano e difendono in virtù di procura in calce al ricorso

RICORRENTE

E

CONDOMINIO […] in persona dell’amministratore pro tempore, rappresentato e in persona difeso in virtù di procura alle liti in calce alla comparsa di costituzione e risposta dall’avvocata […] del Foro di Napoli presso cui elettivamente domicilia

RESISTENTE

all’esito della discussione svolta all’udienza del 29 giugno 2022,

la giudice,

letto il ricorso proposto ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. avente ad oggetto la domanda relativa a rapporti condominiali;

esaminati gli atti e i verbali di causa e udito l’esito della discussione;

esaminata la documentazione prodotta,

OSSERVA

La società […] ha chiesto di condannare il condominio convenuto a far conoscere i dati dei condomini che non hanno corrisposto l’esatto ammontare di quanto dovuto in virtù del contratto di appalto avente ad oggetto i “lavori di manutenzione della copertura del fabbricato, rifacimento terrazzino di proprietà […] rifacimento tratti di grondaie”, il cui corrispettivo di € 16.149,00 oltre IVA non era stato pagato.

La ricorrente ha rappresentato che era stato convenuto l’obbligo a carico dell’amministratore, in caso di mancato pagamento del corrispettivo pattuito, di fornire all’appaltatore i nominativi dei condomini morosi per consentire alla società di agire direttamente nei loro confronti, ma che all’istanza rivolta in tal senso l’amministratore aveva risposto con una missiva incomprensibile e inadeguata rispetto alla ratio della norma.

La società creditrice ha dunque azionato la pretesa in via giudiziale con il ricorso introduttivo del presente procedimento chiedendo inoltre la condanna a versare € 50,00 per ogni giorno di ritardo nell’adempimento ai sensi dell’articolo 614 bis c.p.c..

Il condominio si è costituito eccependo che la email trasmessa il 28 maggio 2021 non era di difficile comprensione né di anomala formattazione, ma in essa si evince semplicemente il nominativo di tre condomini (di cui due proprietari per la metà ciascuno) e la somma da essi dovuta. Ha eccepito il condominio che nessun’altra informazione è dovuta e che tutti gli ulteriori dati richiesti dall’attrice non attengono al diritto individuato dalla norma.

Ciò premesso, va evidenziato che la questione può essere decisa con la cognizione semplice di cui agli articoli 702 bis e seguenti c.p.c., risultando dalla sola analisi dei documenti prodotti.

In via preliminare va altresì precisato che la costituzione del condominio nell’azione proposta non necessitava di previa delibera assembleare, rientrando l’oggetto del giudizio nell’ambito dei poteri dell’amministratore ed essendo previsto dalla disciplina della materia l’obbligo di fornire i detti elementi. In ogni caso la difesa del condominio ha prodotto il verbale dell’assemblea che ha ratificato il conferimento della procura alle liti per resistere in questo giudizio.

Si evince dagli atti che la ricorrente ha sollecitato il condominio a farle avere la documentazione e i dati sopra indicati, tra cui sono tuttavia compresi anche dettagli e informazioni che esulano dalla previsione di cui all’articolo 63 disp. att. c.c..

La norma, infatti, legittima i creditori del condominio a chiedere all’amministratore, che è tenuto alla comunicazione, i dati dei condomini morosi: l’amministratore è tenuto a «comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi. I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini>>. Indipendentemente, dunque, da eventuale previsione pattizia nel contratto con il terzo, l’amministratore è espressamente tenuto a comunicare al creditore il nominativo dei condomini morosi: ne deriva che i condomini in regola con i pagamenti possono essere aggrediti solo dopo che il creditore abbia tentato di soddisfarsi sui condomini inadempienti. È stato osservato dai commentatori che dal momento che non è mutata con la riforma del 2012 la formulazione dell’articolo 1123 c.c., la disciplina modificata dell’articolo 63 disp. att. c.c. ha funzione di mitigare rispetto al terzo creditore l’esposizione dei singoli condomini in regola con i pagamenti, costringendo il creditore a soddisfarsi dapprima nei confronti dei condomini morosi. La riforma ha così tentato di riempire un vuoto normativo la cui rilevanza era emersa a maggior ragione dopo l’affermarsi dell’orientamento di legittimità [Cass., sez. un., n. 9148/08] per il quale, com’è noto, «conseguita nel processo la condanna dell’amministratore, quale rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all’esecuzione individualmente nei confronti dei singoli, secondo la quota di ciascuno», consentendosi così di azionare in sede esecutiva e rispetto ai singoli condomini il titolo conseguito nei confronti del condominio: senza però che fosse chiaro, all’epoca, quali strumenti il creditore avesse a disposizione per individuare il debitore cui rivolgersi.

È stato giustamente osservato che la questione involge diversi istituti tipici della materia condominiale, tra cui quello della inapplicabilità del principio dell’apparenza del diritto sia in relazione ai rapporti tra amministratore e condomini [Cass., sez. un., n. 5035/02; Cass. n. 22089/07, n. 17039/07, n. 23994/04] che nei rapporti tra condomini e terzi [Cass., n. 23621/17]; e, ancora, il tema delle concrete modalità di esecuzione nei confronti del singolo, in ordine al quale i giudici di legittimità hanno affermato [Cass., n. 22856/17] che, se relativa alle obbligazioni contratte dall’amministratore, essa può avere luogo esclusivamente nei limiti della quota millesimale del condomino e quindi, se il creditore ometta di specificarla o proceda per il totale dell’importo portato dal titolo, l’esecutato può proporre opposizione all’esecuzione ai sensi dell’articolo 615, comma 1 c.c. deducendo di non essere condomino o contestando la misura della quota allegata dal creditore.

Secondo un orientamento oggi superato, la domanda volta a conseguire l’ordine di comunicare al creditore non soddisfatto i dati dei condomini morosi deve essere rivolta nei confronti dell’amministratore e non del condominio, trattandosi di obbligo posto dalla legge a carico dell’amministratore [Tribunale di Catania, 16 gennaio 2018 e 15 dicembre 2017; Tribunale di Napoli, 1 febbraio 2017 e 5 settembre 2016], poiché correlato all’obbligo di tenuta del registro dell’anagrafe condominiale.

Altro e maggioritario orientamento ritiene che legittimato passivo sia il condominio (ovviamente in persona dell’amministratore) [Tribunale di Tivoli, 16. novembre 2015; Tribunale di Roma, 1 febbraio 2017; Tribunale di Napoli, 15 febbraio 2019 e 21 luglio 2020], in quanto soggetto obbligato è si l’amministratore, ma solo ed esclusivamente in ragione della sua posizione di mandatario dell’ente di gestione.

L’orientamento che ravvisa nel condominio la legittimazione passiva è l’unico in grado di assicurare tutela al creditore di una prestazione (il terzo creditore dell’ente, per il caso di cui all’art. 63 disp. att. c.c.; ma anche il condomino richiedente accesso alla documentazione, caso speculare e che presenta la medesima questione) indipendentemente dalle vicende modificative dell’organo gestorio e dalla eventuale sostituzione della persona fisica dell’amministratore.

È chiaro che l’obbligo posto dalla legge a carico dell’amministratore trova il suo fondamento giustificativo nel rapporto di mandato che lo lega al condominio: sicché per il caso in cui l’amministratore non ottemperi ai suoi doveri e il condominio medesimo, in persona dell’amministratore, venga condannato, rimane salva l’azione di responsabilità dovuta all’eventuale inerzia.

In relazione alla ratio della disciplina, l’obbligo è soddisfatto con la comunicazione delle generalità complete dei condomini, dei dati catastali degli immobili come iscritti nell’anagrafe condominiale delle quote millesimali e dell’importo dovuto da ciascuno secondo la ripartizione svolta in virtù della relativa tabella. Altri dati non sono previsti, sicché la domanda proposta va oltre il dato normativo e la consistenza dell’obbligo di cui si è detto.

Vero è che nel caso di specie gli elementi forniti dall’amministratore sono parziali anche rispetto all’interpretazione (prevalente e che si condivide) del contenuto dell’obbligo di comunicazione: nella missiva depositata in copia, infatti, risultano soltanto i nomi e cognomi dei condomini morosi e l’importo dovuto, senza indicazione delle complete generalità, né dei dati dei beni immobili riferibili, né delle relative quote millesimali.

Difficilmente comprensibile è peraltro la resistenza alla lite manifestata dal convenuto anche dopo che, come si evince dal verbale della prima udienza di comparizione, la difesa dell’attrice aveva espressamente ristretto la propria richiesta ai dati effettivamente necessari (come poi confermato nella fase conclusionale), rinunciando alla comunicazione di quelli non dovuti. La difesa del condominio invece si è assestata sulla sua posizione, non ritenendo dovuta la comunicazione di altri dati oltre a quelli già forniti. Ciò impone di considerare prevalente, nella disciplina delle spese di lite, il principio di causalità sull’eventuale valutazione di una parziale soccombenza reciproca. Le spese di giudizio si liquidano dunque come da dispositivo secondo le tariffe di cui al D.M. n. 55/14, tenuto conto dell’effettivo valore della controversia ai sensi dell’articolo 5 e applicato il valore medio di liquidazione delle varie fasi effettivamente svoltesi come previsto da detto decreto, con la massima riduzione delle fasi decisionale (del 50%) e istruttoria (del 70%) attesa la semplicità del caso e la concreta bassa complessità degli atti di causa e delle istanze istruttorie e decisionali.

Merita parimenti accoglimento anche l’istanza della ricorrente di ottenere la fissazione, ai sensi dell’articolo 614 bis cp.c., di una somma a carico dell’obbligato per ogni giorno di eventuale ritardo nell’esecuzione del presente provvedimento; somma che, tenuto conto dell’importo del credito vantato e del significativo ritardo che l’inerzia prima e il comportamento processuale poi hanno causato nel soddisfacimento delle pretese del creditore, si determina in €50,00 per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento a decorrere dal quindicesimo giorno successivo alla notifica dello stesso.

P.Q.M.

 Il Tribunale in composizione monocratica così provvede:

a) accoglie la domanda così come precisata dall’attrice e per l’effetto condanna il CONDOMINIO […], in persona dell’amministratore pro tempore, a fornire entro quindici giorni dalla comunicazione del presente provvedimento alla società […] S.C. con sede in Capodrise, in persona del legale rappresentante pro tempore, con riferimento al contratto di appalto del 29 maggio 2015 avente ad oggetto lavori di manutenzione della copertura del fabbricato, rifacimento terrazzino di proprietà […] rifacimento tratti di grondaie, l’elenco nominativo dei condomini morosi completo del codice fiscale, della data e luogo di nascita, della residenza o domicilio, della indicazione dei millesimi di proprietà e della tabella applicabile e delle somme dovute da ciascuno;

b) visto l’articolo 614 bis c.p.c. fissa in € 50,00 la somma dovuta all’attrice […] S.C. con sede in Capodrise, in persona del legale rappresentante pro tempore, dal convenuto CONDOMINIO […] in persona dell’amministratore pro tempore, per ogni giorno di ritardo nella esecuzione del provvedimento a decorrere dal quindicesimo giorno successivo alla notificazione dello stesso;

c) condanna il convenuto CONDOMINIO […] in persona dell’amministratore pro tempore, al pagamento in favore della società con sede in Capodrise, in persona del legale rappresentante pro tempore, delle spese di lite che si liquidano in € 85,05 per spese ed € 1.458,00 oltre rimborso forfetario come per legge, IVA e CPA, con attribuzione ex articolo 93 c.p.c. agli avvocati […] e […] che hanno dichiarato di averne fatto anticipo.

Santa Maria Capua Vetere, 30 giugno 2022

La giudice

Carla Bianco

Trib. Santa Maria Capua Vetere 1.7.2022

Diritto di Famiglia Separazione e Divorzio

Famiglia, assegno: e se il figlio maggiorenne non autosufficiente lascia la casa per motivi di studio? (Cass. 29977/20)

Cassazione civile, Sez. I, Sentenza del 31/12/2020, n. 29977

Separazione personale dei coniugi – Assegno di mantenimento a favore del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente – Allontanamento del figlio per motivi di studio – Legittimazione “iure proprio” del genitore già collocatario – Aumento del  contributo – Sussistenza – Condizioni

LA QUESTIONE GIURIDICA

Può il genitore che non vive più col figlio maggiorenne chiedere un aumento dell’importo dell’assegno di mantenimento in favore di quest’ultimo, oppure il venir meno della coabitazione abituale col genitore collocatario incide sulla legittimazione ad agire e sul quantum dell’assegno?

IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE

In materia di separazione dei coniugi, la legittimazione “iure proprio” del genitore a richiedere l’aumento dell’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente economicamente, che non abbia formulato autonoma richiesta giudiziale, sussiste quand’anche costui si allontani per motivi di studio dalla casa genitoriale, qualora detto luogo rimanga in concreto un punto di riferimento stabile al quale fare sistematico ritorno e sempre che il genitore anzidetto sia quello che, pur in assenza di coabitazione abituale o prevalente, provveda materialmente alle esigenze del figlio, anticipando ogni esborso necessario per il suo sostentamento presso la sede di studio.

(Presidente Dott. DE CHIARA Carlo – Relatore Dott. PARISE Clotilde)

LA SENTENZA (estratto)

(omissis)

Svolgimento del processo

1. Con ricorso ex art. 337 quinquies c.c., V.M. chiedeva al Tribunale di Lecce l’aumento, da Euro 200 a Euro 450, dell’assegno di mantenimento a carico del padre B.G. per il figlio maggiorenne L., studente iscritto all’Università di (OMISSIS). Il Tribunale, con Decreto 28 gennaio 2015, rigettava la domanda rilevando che la coabitazione del figlio maggiorenne con la madre già affidataria era cessata e che il figlio, in ragione della frequenza dei corsi universitari a (OMISSIS), faceva rientro presso l’abitazione materna solo in occasione delle festività natalizie e pasquali e durante le vacanze estive.

2. Il reclamo proposto dalla V. avverso il citato decreto è stato accolto dalla Corte d’appello di Lecce con Decreto n. 139 del 2015, pubblicato il 19-11-2015 e notificato 27-11-15. La Corte territoriale ha ritenuto sussistente la legittimazione iure proprio e concorrente della madre a chiedere l’aumento del contributo di mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente, il quale “fa sempre capo al genitore con cui coabita per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente”. La Corte d’appello ha, pertanto, disatteso l’orientamento richiamato dal Tribunale, non attribuendo rilevanza, nel caso di specie, al criterio del tempo, prevalente o sporadico, trascorso dal figlio maggiorenne presso l’abitazione del genitore già collocatario, essendo giustificato da ragioni di studio l’allontanamento, per parte prevalente dell’anno, del figlio stesso dalla suddetta abitazione. La Corte territoriale ha, inoltre, accolto la richiesta di aumento del contributo di mantenimento a carico del padre, quantificato in Euro 450,00 mensili, importo ritenuto congruo in considerazione delle spese che notoriamente deve affrontare uno studente universitario fuori sede.

3. Avverso questo provvedimento B.G. propone ricorso per cassazione (R.G.N. 1634/2016), affidato a due motivi, di cui il primo articolato in cinque punti, nei confronti di V.M., che resiste con controricorso.

4. Avverso lo stesso Decreto n. 139 del 2015, B.G. ha proposto, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, ricorso per revocazione, che è stato dichiarato inammissibile dalla Corte d’appello di Lecce con sentenza n. 675/2016 pubblicata il 27-6-2016. La Corte territoriale ha ritenuto insussistente il denunciato errore di fatto, rilevando che con il decreto impugnato era stato valutato l’aspetto della maggiore o minore permanenza del figlio presso la casa materna, presso quella paterna e presso la sede universitaria e se ne era esclusa la rilevanza, attribuita, invece, alla circostanza che il figlio, nonostante la coabitazione sporadica con la madre, faceva capo alla stessa “per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente”.

5. Avverso la citata sentenza n. 675/2016 della Corte d’appello di Lecce B.G. propone ricorso per cassazione (R.G.N. 20675/2016), affidato a sette motivi, nei confronti di V.M., che resiste con controricorso.

6. La prima causa, inizialmente assegnata alla Sesta Sezione di questa Corte, è stata rimessa alla pubblica udienza, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., u.c., per l’eventuale riunione dell’altra causa ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

La Procura Generale ha depositato requisitoria e le parti hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso di cui al n. 1634/2016 R.G. il ricorrente lamenta: (i) l’erronea valutazione da parte della Corte d’appello del fatto che il figlio ormai maggiorenne non coabita più con la madre e del fatto che a questa si sarebbe dovuto rivolgere per le proprie esigenze economiche, rimarcando che nei gradi di merito la stessa madre aveva riferito che il figlio abitava a (OMISSIS) e nei periodi in cui rientrava a (OMISSIS) si tratteneva anche presso la casa paterna, nonchè assumendo come pacifica la contribuzione del padre alle spese universitarie, specie quelle concordate con il figlio (pag. 4 ricorso), il quale, dunque, non faceva solo riferimento alla madre per tali spese; (ii) la violazione del disposto dell’art. 337 septies c.c., che prevede il versamento dell’assegno periodico di mantenimento per il figlio, maggiorenne ma non indipendente economicamente, direttamente a questi, e non la regola opposta indicata nel decreto impugnato, ossia la responsabilità economica esclusiva di un solo genitore, benchè collocatario, verso il figlio maggiorenne; (iii) la mancanza di motivazione specifica in ordine alle circostanze di fatto giustificative della decisione di disporre il versamento dell’assegno di mantenimento non al figlio ma alla madre, la cui legittimazione concorrente sussiste solo se permane la convivenza; (iv) la mancata considerazione da parte del giudice di merito della cessata coabitazione tra il figlio maggiorenne, che si gestisce del tutto autonomamente, e la madre, in violazione e falsa applicazione degli artt. 337 ter e 337 septies  c.c.; (v) l’erronea valutazione delle circostanze di fatto (maggiore età del figlio, suo trasferimento a (OMISSIS), rientro in (OMISSIS) in alcuni periodi di vacanza con alloggio alternato presso entrambi i genitori, versamento dell’assegno di mantenimento sul conto corrente intestato al figlio), nonchè la violazione del principio dettato dall’art. 337 septies  c.c., secondo il quale, ad avviso del ricorrente, il figlio maggiorenne che non coabita con i genitori “è legittimato in via esclusiva alla fissazione dell’ammontare degli assegni di mantenimento”, considerato che, nella specie, gli assegni di mantenimento pagati dal padre venivano versati dalla madre sul conto corrente bancario intestato al figlio, il quale si gestiva in autonomia, come risultava dal contenuto della nota di whatsapp prodotta e inviata nel (OMISSIS).

1.2. Con il secondo motivo del medesimo ricorso (n. 1634/2016 R.G.) il ricorrente si duole dell’omessa valutazione delle sue deduzioni nel merito della suddivisione dell’onere di mantenimento del figlio tra gli ex coniugi, stante la dedotta sua limitata disponibilità economica, quale libero professionista, come assume documentato in causa in relazione ai redditi dello stesso degli anni 2013 e 2014, rispetto a quella della madre, dirigente ASL con cospicuo stipendio e proprietaria di immobili. Denuncia altresì il vizio di omessa motivazione, avendo la Corte territoriale valutato soltanto le necessità dello studente universitario e non le possibilità di ciascun genitore al fine della distribuzione dell’onere contributivo.

2. Con il secondo ricorso (n. 20675/2016 R.G.) il ricorrente lamenta: (i) con il primo motivo il vizio di illogicità logica e contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la corte territoriale escluso la rilevanza della coabitazione, salvo, di seguito, affermarla, seppure con la connotazione di sporadicità, al fine di giustificare la legittimazione della madre alla domanda di cui trattasi, rimarcando la contraddittorietà nell’utilizzo del termine coabitazione, che non può essere sporadica, oppure, diversamente opinando, dovendosi attribuire rilevanza anche alla coabitazione con il padre, parimenti sporadica; (ii) con i motivi secondo, terzo e quinto la violazione dell’art. 337 ter e septies c.c., per avere la Corte d’appello attribuito rilevanza alla coabitazione, e non alla convivenza, in contrasto con i principi affermati da questa Corte nelle pronunce che richiama (Cass. n. 18869/2014  e n. 4555/2012 ) e per avere il giudice d’appello ritenuto sussistente la legittimazione concorrente del genitore collocatario, nonostante la pacifica cessazione della convivenza con quest’ultimo, in contrasto con il principio dettato dall’art. 337 septies  c.c., secondo il quale, ad avviso del ricorrente, il figlio maggiorenne che non coabita con i genitori è legittimato in via esclusiva a trattare la quantificazione dell’assegno di mantenimento con ciascuno dei genitori e a riceverne direttamente il versamento, non essendo concepibile una sorta di prorogatio, in capo al genitore originariamente collocatario, della responsabilità di sostentamento del figlio maggiorenne allontanatosi per motivi di studio; (iii) con il quarto motivo l’omessa motivazione, ai sensi dell’art. 360  c.p.c., comma 1, n. 5, riguardo le specifiche circostanze di fatto giustificative del riconoscimento alla madre, e non già direttamente al figlio maggiorenne e non economicamente autonomo, della legittimazione a richiedere l’assegno di mantenimento; (iv) con il sesto motivo la mancata valutazione delle circostanze del caso maggiore età del figlio, suo trasferimento a (OMISSIS), rientro in (OMISSIS) in alcuni periodi di vacanza con alloggio alternato presso entrambi i genitori, versamento dell’assegno di mantenimento sul conto corrente intestato al figlio- in base alle quali emergeva l’autonomia del figlio nella gestione delle risorse economiche e della sua esistenza; (v) con il settimo motivo la violazione dell’art. 395  c.p.c., comma 1, n. 4, per mancata revocazione del provvedimento 10-19/11/2015 della Corte d’appello di Lecce, ricorrendo l’errore di fatto consistito nell’affermazione di una circostanza – convivenza o coabitazione con la madre – pacificamente esclusa dalle parti, la violazione dell’art. 324  c.p.c., in relazione al giudicato formatosi sul difetto di coabitazione, con provvedimento del 28/01/2015 del Tribunale di Lecce, nonchè, infine, l’improprio rilievo attribuito alla coabitazione sporadica e il mancato riconoscimento di una eguale posizione giuridica a entrambi i genitori verso il figlio maggiorenne, una volta cessata la coabitazione con la madre, già genitore collocatario.

3. In via preliminare deve disporsi la riunione dei due ricorsi in applicazione analogica dell’art. 335 c.p.c.. Si deve, infatti, ritenere che la riunione di detti ricorsi, anche se non espressamente prevista dalla citata norma del codice di rito, discenda dalla connessione esistente tra le due pronunce, atteso che sul ricorso per cassazione proposto contro la sentenza revocanda può risultare determinante la pronuncia di cassazione riguardante la sentenza resa in sede di revocazione (Cass. n. 10534/2015 ).

4. In ragione della peculiare connessione di cui si è appena detto, prioritariamente deve esaminarsi il ricorso avverso la sentenza che rigetta l’istanza di revocazione (n. 20675/2016 R.G.).

4.1. L’oggetto del giudizio di revocazione, promosso dall’attuale ricorrente ai sensi dell’art. 395  c.p.c., comma 1, n. 4, è l’errore sul fatto della coabitazione del figlio maggiorenne con la madre, fatto che è stato posto, ad avviso del ricorrente, a fondamento della decisione assunta con il decreto della Corte d’appello impugnato e la cui sussistenza il ricorrente assume incontestabilmente esclusa tra le parti.

Premesso, dunque, che il giudizio revocatorio verte, in base alla stessa prospettazione del ricorrente, sull’errore di fatto denunciato nei termini precisati, deve ritenersi pertinente all’oggetto di quel giudizio solo il settimo motivo di ricorso, mentre tutti gli altri motivi, che sono sostanziale riproposizione di quelli di cui al primo ricorso (n. 1634/2016 R.G.), attengono a questioni giuridiche o di merito, estranee al tema decidendi di cui si è detto.

4.2. Ciò posto, le doglianze espresse con il settimo motivo non colgono la ratio decidendi. La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto insussistente il denunciato errore di fatto, rilevando che con il decreto impugnato era stato valutato l’aspetto della maggiore o minore permanenza del figlio presso la casa materna, presso quella paterna e presso la sede universitaria e se ne era esclusa la rilevanza, attribuita, invece, alla circostanza che il figlio, nonostante la coabitazione sporadica con la madre, faceva capo alla stessa “per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente”.

In altri termini, la Corte d’appello non solo ha affermato che non vi fosse stata la falsa percezione di quanto emergeva dagli atti, ma anche e soprattutto ha escluso la decisività di quel fatto ai fini della decisione assunta, per avere avuto rilievo non la circostanza della coabitazione del figlio con la madre, peraltro sporadica, ma il fatto che quest’ultima fosse il soggetto di riferimento del figlio per soddisfare le sue esigenze. A ciò si aggiunga che il giudizio sulla decisività dell’errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da idonea motivazione, come nella specie (Cass. n. 25376/2006 ).

Le censure espresse dal ricorrente non si confrontano con il suddetto, chiaro, percorso argomentativo, risolvendosi in ripetitiva enunciazione della erronea rilevanza decisiva attribuita alla circostanza della coabitazione del figlio con la madre, decisività che è stata, invece, espressamente esclusa dalla Corte territoriale, ed essendo, per le stesse ragioni, inconferente il richiamo al giudicato, asseritamente formatosi in punto di difetto di coabitazione, di cui al decreto del Tribunale del 28/01/2015, riformato con il decreto della Corte d’appello di cui è chiesta la revocazione.

4.3. In conclusione, il ricorso di cui al n. 20675/2016 R.G. deve dichiararsi inammissibile.

5. Passando all’esame dell’altro ricorso, occorre premettere che, anche qualora fosse ora mutata la situazione per effetto dei provvedimenti provvisori emessi in sede di divorzio (cfr. memoria illustrativa del ricorrente di data 28-3-2017 e documenti allegati), permarrebbe l’interesse del ricorrente alla pronuncia in relazione al periodo anteriore, atteso che solo a partire dalla data in cui nel giudizio divorzile sono emessi i provvedimenti provvisori questi ultimi si sostituiscono a quelli emessi nel giudizio di separazione (Cass. n. 7547/2020 ).

5.1. Il primo motivo è articolato in cinque punti, con censure espresse sub specie del vizio di violazione di legge (artt. 337 ter  e septies c.c.) e motivazionale, tutte concernenti, sotto distinti ma collegati profili, la rilevanza della convivenza e/o coabitazione del figlio maggiorenne con la madre al fine di escludere la legittimazione iure proprio di quest’ultima a pretendere l’aumento del contributo di mantenimento di Euro 200 che era stato posto a carico del padre, con obbligo di versamento alla madre collocataria, in base a quanto concordato dai coniugi in sede di separazione e recepito con la sentenza del Tribunale di Lecce n. 2583/2011.

Il ricorrente assume, in buona sostanza, che non sussista la legittimazione iure proprio e concorrente della madre ad agire per ottenere l’aumento del contributo di mantenimento per il figlio maggiorenne in ragione del fatto che quest’ultimo, per motivi di studio, trascorre lunghi periodi non più presso l’abitazione della madre, ma nella città ove ha intrapreso gli studi universitari.

5.2. La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente chiarito, con orientamento costante, che l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. In tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario, è legittimato, iure proprio, ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento, ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne. La perdurante legittimazione del coniuge già affidatario, in difetto di richiesta di corresponsione diretta dell’assegno da parte del figlio divenuto nelle more maggiorenne, si configura come autonoma, nel senso che il genitore già collocatario resta titolare, nei confronti dell’altro genitore obbligato, di un’autonoma pretesa basata sul comune dovere nei confronti del figlio ai sensi degli artt. 147  e 148  c.c. (tra le tante Cass. n. 25300/2013  e Cass. n. 35629/2018).

L’art. 337 septies  c.c., prevede, infatti, come ipotesi alternativa a quella, ordinaria, del versamento diretto dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne, quella conseguente a “diversa determinazione del giudice”. Nella casistica giurisprudenziale di merito, formatasi in osservanza dei principi affermati da questa Corte (tra le tante Cass. n. 4555/2012  e da ultimo Cass. n. 17380/2020 ), la “diversa determinazione” che il giudice può assumere, valutate le circostanze del caso concreto, è anzitutto, appunto, il versamento del contributo all’altro genitore che si occupi materialmente del mantenimento del figlio, a ciò conseguendo la legittimazione attiva del suddetto genitore. Poichè, di norma, è il genitore con il quale il figlio abita a provvedere materialmente ai bisogni ed alle necessità del figlio stesso, la coabitazione si configura, nelle ipotesi che più frequentemente ricorrono, come un parametro fattuale di rilevanza indiziaria, idoneo a giustificare la deroga alla regola generale della corresponsione diretta della somma a titolo di contributo al mantenimento al figlio maggiorenne. Il versamento dell’assegno periodico al genitore con cui permane la coabitazione con il figlio maggiorenne rappresenta, perciò, un contributo concreto alla copertura delle spese correnti che egli si trova a dover sostenere mensilmente, spese correnti cui sono e restano comunque entrambi i genitori obbligati ai sensi degli artt. 147  e 148  c.c..

In definitiva, la coabitazione può assurgere ad univoco indice del fatto che permanga un più intenso legame di comunanza familiare tra il figlio maggiorenne e il genitore con cui abita e che sia quest’ultimo la figura di riferimento per il corrente sostentamento del primo e colui che provvede materialmente alle sue esigenze. Ciò che decisivamente rileva, perciò, ai fini della legittimazione, è che il genitore di cui trattasi sia appunto la figura di riferimento del figlio per il suo corrente sostentamento e colui che provvede materialmente alle sue esigenze: elemento, questo, rispetto al quale la convivenza ha valore puramente inferenziale.

5.2.1. Così chiarita la finalità, sostanzialmente probatoria a livello indiziario, da attribuirsi al fatto della coabitazione, ritiene il Collegio che debba darsi continuità, con le precisazioni di cui si dirà, all’orientamento di questa Corte (Cass. n. 11320/2005 ; Cass. n. 14241/2017  e n. 12391/2017  non massimate) secondo il quale non può darsi dirimente rilevanza al solo dato temporale della permanenza del figlio presso l’abitazione del genitore già collocatario. Mentre il rapporto coniugale è connotato di regola da una quotidiana coabitazione e dalla unicità di interessi familiari, quello di filiazione può essere più spesso caratterizzato, in presenza di peculiari e personali interessi del figlio, specie se maggiorenne, da una sua presenza solo saltuaria per la necessità di assentarsi con frequenza per motivi di studio o di lavoro anche per non brevi periodi (così Cass. n. 11320/2005 ).

La sporadicità dei rientri presso l’abitazione del genitore, stante le ragioni dell’allontamento, non comporta affatto, per ciò solo, che siano mutati i precedenti assetti di contribuzione familiare. Una frequentazione solo saltuaria della casa da parte del figlio non è, infatti, incompatibile con la persistenza di un più intenso legame di comunanza di vita con uno solo dei genitori, tale che sia quest’ultimo a restare la figura di riferimento per il corrente sostentamento del figlio e a provvedere materialmente alle sue esigenze.

In altri termini, come rimarcato anche dalla Procura Generale, pur in difetto della prevalenza temporale della presenza del figlio nella casa del genitore già collocatario, quest’ultimo e la sua casa potranno essere rimasti per il primo un punto di riferimento stabile del nucleo familiare, sebbene “ristretto” all’esito della separazione coniugale, stante la sistematicità del ritorno del figlio studente in quel luogo, compatibilmente con i suoi impegni universitari o, in generale, di studio. Soprattutto, poi, potrà verificarsi in concreto che sia quel genitore, pur in assenza di coabitazione abituale o prevalente, a provvedere materialmente alle esigenze del figlio stesso, anticipando ogni esborso necessario per il suo sostentamento presso la sede di studio.

Nel concorso di dette circostanze, il cui accertamento non può che essere rimesso ai giudici di merito, trova giustificazione la legittimazione iure proprio di cui si sta trattando, sempre che sia mancata la richiesta in via giudiziale, da parte del figlio maggiorenne, di corresponsione diretta dell’assegno di mantenimento (Cass. n. 12392/2017 , non massimata, per l’affermazione del principio secondo cui la legittimazione attiva resta al genitore in mancanza di richiesta giudiziale di versamento diretto del figlio).

5.2.2. Ritiene, pertanto, il Collegio di dover dissentire dall’indirizzo espresso in alcune pronunce di questa Corte (cfr. Cass. n. 4555/2012  e Cass. n. 18075/2013 ) secondo cui, anche nelle ipotesi di allontamento del figlio per motivi di studio, la persistenza della legittimazione iure proprio del genitore già collocatario deve valutarsi in base al criterio discretivo della prevalenza temporale della coabitazione, potendo mutuarsi i principi affermati sull’assegnazione della casa familiare.

In relazione a quest’ultima tematica, il parametro della prevalenza temporale è certamente dirimente, atteso che è solo l’effettiva e fisica presenza del figlio nella casa familiare a giustificarne l’assegnazione al coniuge già collocatario, sicchè detta assegnazione va negata se difetta la prevalenza temporale effettiva della presenza del figlio nell’abitazione. Invece, con riguardo alla legittimazione iure proprio del genitore a richiedere all’ex coniuge il contributo per il mantenimento del figlio, nella particolare ipotesi di suo allontanamento per motivi di studio, la casa ove vive il coniuge già collocatario assume rilevanza solo come luogo di “ritorno” e ritrovo del nucleo familiare nei termini di cui si è detto, sicchè non è pertinente, ai fini che qui interessano e per quanto precisato, l’accertamento dell’assidua o prevalente frequentazione della casa da parte del figlio.

5.3. Facendo applicazione dei principi suesposti al caso di specie, le doglianze sono infondate, laddove il ricorrente assume la carenza di legittimazione attiva della V. perchè difetta la coabitazione prevalente del figlio presso la sua casa.

Occorre premettere che non è in discussione che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne, studente universitario “modello”, e non autosufficiente, nè risulta, in base a quanto esposto nel decreto impugnato e a quanto dedotto dalle parti, che egli abbia richiesto al padre la corresponsione diretta dell’assegno, a modifica di quanto previsto nella sentenza di separazione coniugale, intervenendo in giudizio oppure esperendo autonoma azione.

Ciò posto, la Corte territoriale, dopo aver precisato di non condividere l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il genitore è legittimato a chiedere l’aumento dell’assegno di mantenimento per il figlio solo se quest’ultimo abiti in prevalenza presso la sua casa, ha ravvisato sussistente la legittimazione concorrente della reclamante in quanto genitore a cui il figlio faceva capo per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non poteva provvedere autonomamente. L’accertamento di fatto compiuto dalla Corte d’appello è, dunque, consistito nell’individuare la madre come soggetto di riferimento per il corrente e materiale sostentamento economico del figlio trasferitosi in altra città per motivi di studio, ossia per necessità di istruzione e per scelta dello stesso figlio, condivisa dalla madre ed avversata dal padre, anche giudizialmente senza esito positivo.

Le censure si incentrano, per un verso e principalmente, sulla questione della sporadicità della coabitazione del figlio con la madre, che non ha, invece, rilevanza dirimente in base alle considerazioni in diritto sopra espresse (p. 5.2), sicchè ne discende l’infondatezza per quanto si è precisato.

Per altro verso, il ricorrente, senza censurare specificamente il fatto posto a base della decisione impugnata (materiale e corrente sostentamento della madre necessario per mantenere il figlio a (OMISSIS), con la relativa anticipazione di ogni spesa), deduce che il figlio si gestisce autonomamente, dato che gli assegni di mantenimento corrisposti dal padre venivano versati dalla madre su un conto corrente intestato al giovane, nonchè si limita genericamente a sostenere di contribuire “alle spese straordinarie, specie quelle universitarie e concordate col figlio”, richiamando una “nota di WhatsApp”, prodotta in primo grado come doc. n. 5, indicata come risalente al (OMISSIS), da cui risulterebbero le nuove condizioni economiche concordate con il figlio, peraltro, per quanto è dato comprendere, con un aumento del contributo (raddoppiato rispetto a quello iniziale di Euro 200) solo a carico della madre.

In disparte ogni considerazione sulla valenza di quel documento, del quale non vi è cenno nel decreto impugnato, ai fini della prova dell’accordo asseritamente intervenuto tra padre e figlio, che non risulta aver mai avanzato richiesta di corresponsione diretta del contributo di mantenimento dovuto dal padre, le doglianze sono inammissibili perchè genericamente formulate e neppure specificamente riferibili alla ratio decidendi del decreto impugnato di cui si è detto.

6. Anche il secondo motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.

6.1. Il ricorrente si duole della suddivisione in parti paritarie tra gli ex coniugi del disposto aumento del contributo di mantenimento (Euro 450 a carico di ciascuno) per mancata considerazione delle sue condizioni reddituali, lamentando anche omessa motivazione.

La Corte d’appello ha, invece, motivato in modo idoneo, non inferiore al minimo costituzionale (Cass. S.U. n. 8053/2014 ), la statuizione sul punto e le ulteriori doglianze, relative alla valutazione della capacità reddituale del padre, libero professionista, sollecitano, in realtà, inammissibilmente una rivalutazione del merito.

7. In conclusione il ricorso di cui al n. 1634/2016 R.G. va rigettato.

8. Considerata la parziale difformità di orientamento di questa Corte sulle questioni dirimenti rispetto a precedenti pronunce, le spese del presente giudizio sono compensate per metà e le residue spese, liquidate nell’intero come in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente.

9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002 , art. 13 , comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. S.U. n. 5314/2020 ).

10. Va disposto che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 , art. 52 .

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso di cui al n. 20675/2016 R.G. e rigetta il ricorso di cui al n. 1634/2016, compensa per metà le spese del presente giudizio e condanna il ricorrente alla rifusione della residua metà di dette spese, liquidate, nell’intero, in complessivi Euro 6.400, di cui Euro 400 per esborsi, oltre spese generali, nella misura del 15 per cento, ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002 , art. 13 , comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 dicembre 2020

 

Circolazione stradale Responsabilità extracontrattuale

Danno da fauna selvatica, incidente con cinghiale: è responsabile la Regione ex art. 2052 c.c. (Trib. Rovigo, sent. 03.06.22)

Tribunale di Rovigo, Giudice Dr.ssa Federica Abiuso, Sentenza n. 504/2022, pubb. il 03/06/2022 (RG n. 2085/2017)

IL PASSO SALIENTE DELLA SENTENZA

Nonostante l’oscillazione degli orientamenti giurisprudenziale nell’arco dell’ultimo decennio, da ormai due anni la Suprema Corte ha chiarito la disciplina applicabile alle fattispecie oggetto di causa. Difatti, la Corte ha da ultimo rinnovato la propria posizione chiarendo che, avendo l’ordinamento stabilito (con legge dello Stato) che il diritto di proprietà in relazione ad alcune specie di animali selvatici (precisamente quelle oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992) è effettivamente configurabile, in capo allo stesso Stato (quale suo patrimonio indisponibile) e, soprattutto, essendo tale regime di proprietà espressamente disposto in funzione della tutela generale dell’ambiente e dell’ecosistema, con l’attribuzione esclusiva a soggetti pubblici del diritto/dovere di cura e gestione del patrimonio faunistico tutelato onde perseguire i suddetti fini collettivi, la immediata conseguenza della scelta legislativa è l’applicabilità anche alle indicate specie protette del regime oggettivo di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. (cfr. Cassazione civile sez. III, 29/04/2020, n.8385). L’esenzione degli enti pubblici dal regime di responsabilità oggettiva di cui all’art. 2052 c.c., non potendosi in diritto giustificare sulla impossibilità di configurare un effettivo rapporto di custodia per gli animali selvatici (non costituendo affatto la custodia il presupposto di applicabilità della disposizione che disciplina l’imputazione della responsabilità, ai sensi dell’art. 2052 c.c.), finirebbe, difatti, per risolversi in un ingiustificato privilegio riservato alla pubblica amministrazione.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale Ordinario di Rovigo

Il Tribunale Ordinario di Rovigo in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott.ssa Federica Abiuso,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta al n. R.G. 2085/2017

promossa da

(omissis), assistito e difeso dall’avv. CALVELLO CLAUDIO, come da procura in atti;

PARTE ATTRICE

Nei confronti di

REGIONE VENETO, assistito e difeso dall’avv. (omissis), come da procura in atti;

PARTE CONVENUTA

PROVINCIA DI PADOVA, non costituita;

ENTE PARCO REGIONALE DEI COLLI EUGANEI, assistito e difeso dall’avv. (omissis), come da procura in atti;

TERZI CHIAMATI

Conclusioni: le parti hanno precisato le proprie conclusioni come da note depositate in vista dell’udienza del 19.01.2022.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con atto di citazione regolarmente notificato, (omissis) ha convenuto in giudizio la Regione del Veneto, in persona del legale rappresentante pro tempore, per sentirla condannare al risarcimento dei danni quantificabili nella somma di 7.931,49, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi secondo il criterio impartito dalle SS.UU della Suprema Corte con la nota pronuncia 1712/1995. A fondamento della propria domanda l’attrice ha allegato che in data 01.10.2016 alle ore 00:10 (omissis), si trovava a percorrere Via Cinto, in località Fontanafredda di Cinto Euganeo (PD), a bordo del veicolo Citroen Xsara Picasso, targato (omissis), assicurato con (omissis) S.p.A. di proprietà di (omissis), allorquando, improvvisamente, un cinghiale di grossa taglia attraversava la sede stradale, impattando contro il mezzo attoreo e provocando danni materiali al veicolo, con necessità di riparazione dello stesso; ha quindi chiesto il risarcimento delle somme relative ai costi di riparazione, al fermo tecnico subito e alle somme relative all’attività di assistenza legale stragiudiziale.

In data 25.10.2017, si è costituita in giudizio la Regione Veneto contestando le pretese attoree sia in fatto sia in diritto e chiedendo il rigetto dell’avversa domanda nonché la chiamata in causa della Provincia di Padova e dell’Ente Parco Regionale dei Colli Euganei.

Autorizzata la suddetta chiamata dei terzi, si è costituito in giudizio l’Ente Parco Regionale dei Colli Euganei contestando la propria legittimazione passiva.

La Provincia di Padova nono si è costituita in giudizio.

Il Giudice formulava due proposte conciliative, oltre alla formulazione di proposte conciliative da parte delle parti stesse, le quali tuttavia non comportavano la composizione bonaria della lite.

La causa è stata istruita mediante assegnazione dei termini ex art. 183, 6 co. c.p.c., escussione dei testimoni e disposizione di una CTU volta a ricostruire i danni prodotti sul veicolo.

Ritenuta la causa matura per la decisione, le parti hanno precisato le proprie conclusioni all’udienza del 19.01.2022, data in cui il Giudice ha trattenuto la causa in decisione assegnando i termini ex art. 190 c.p.c.

Tutto ciò premesso, si osserva quanto segue.

Preliminarmente la presente sentenza viene redatta applicando gli artt. 132 c.p.c. e 118 c.p.c. nel testo novellato con L. 18 giugno 2009, n. 69, entrata in vigore il 04.07.2009; tali disposizioni sono immediatamente applicabili anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della novella (cfr. art. 58 L. n. 69 del 2009, che detta le disposizioni transitorie).

Il novellato art. 132 esonera il giudice dal redigere lo svolgimento del processo ritenuta la legittimità processuale della motivazione c.d. per relationem (cfr Cass., 16.1.2015 n. 642 e cassa 3636/2007).

Per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, il giudice nel motivare concisamente la sentenza secondo i dettami di cui all’art. 118 disp. Att., non è affatto tenuto ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le questioni sollevate dalle parti, ben potendosi egli limitare alla sola trattazione delle questioni – di fatto e di diritto – “rilevanti ai fini della decisione” concretamente adottata, di modo che le restanti questioni non trattate non andranno necessariamente ritenute come “omesse” ben potendo esse risultare semplicemente assorbite (ovvero superate) per incompatibilità logico giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante.

Difatti, si richiama sul punto il principio e enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, in base a cui “la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 n. 4 c.p.c., e l’osservanza degli art. 115 e 116, c.p.c., non richiedono che il giudice di merito dia conto dell’esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, offrendo una motivazione logica ed adeguata, evidenziando le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito” (Cassazione civile , sez. III, 27 luglio 2006, n. 17145).

Inoltre, sempre in via preliminare, vengono in questa sede integralmente richiamate le ordinanze istruttorie rese in corso di causa e quindi vengono rigettate tutte le istanze istruttorie riproposte dalle parti in sede di precisazione delle conclusioni.

Sempre in via preliminare, occorre specificare che come noto, la qualificazione giuridica delle domande ed eccezioni è operazione rimessa al giudice, secondo il principio “iura novit curia“. È onere delle parti infatti quello di allegare i fatti costitutivi delle domande ed eccezioni e specificare le conseguenze e la tutela che da tali fatti si invocano, rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa.

Spetta al giudice infatti ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ben potrà porre a fondamento della propria decisione principi di diritto diversi da quelli richiamati dalle parti (Cfr., per tutte, Cass. civ. Sez. lavoro, 24/07/2012, n. 12943, Cass. civ. Sez. 2, 13/12/2013, n. 27940).

Inoltre, è bene precisare che il giudice di merito, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte ma deve accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella proposta (Cfr. ex multis: Cassazione civile sez. lav., 18/06/2020, n. 11899).

Quindi, tra i poteri – doveri del giudice di merito v’è quello di riqualificare i fatti posti alla base della domanda e di individuare le norme di diritto conseguentemente applicabili, anche ed eventualmente in difformità rispetto alle indicazioni delle parti (Cass. Civ., sez. I, 19.03.2020, ordinanza n. 7467).

A tale riguardo, occorre operare una premessa ed un inquadramento della fattispecie oggetto di giudizio, alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità sul punto.

Con riferimento all’invocata responsabilità della Regione Veneto nella causazione del sinistro e dei danni in capo all’attrice, occorre richiamare l’orientamento da ultimo formatosi nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cassazione civile sez. III, 29/04/2020, n. 8385).

In particolare la terza sezione della Corte di Cassazione, con tre recenti sentenze, ha preso posizione in merito ai discordanti orientamenti susseguitisi nel tempo in tema di danni causati dagli animali selvatici, in particolare dapprima operando una ricostruzione storica degli orientamenti susseguitisi nel tempo, sino poi ad approdare a conclusioni in parte innovative.

In punto di disciplina normativa si rileva che con la L. 27 dicembre 1977, n. 968, la fauna selvatica (appartenente a determinate specie protette) è stata dichiarata patrimonio indisponibile dello Stato, tutelata nell’interesse della comunità nazionale e le relative funzioni normative e amministrative sono state assegnate alle Regioni, anche in virtù dell’art. 117 Cost..

Successivamente, la L. 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) ha specificato che la predetta tutela riguarda “le specie di mammiferi e di uccelli dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale”, precisando, sul piano delle competenze, che, da un lato, le Regioni a statuto ordinario provvedono “ad emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica” (art. 1); “esercitano le funzioni amministrative di programmazione e di coordinamento ai fini della pianificazione faunistico-venatoria”; “svolgono i compiti di orientamento, di controllo e sostitutivi previsti dalla presente legge e dagli statuti regionali” (art. 9); “attuano la pianificazione faunistico-venatoria mediante il coordinamento dei piani provinciali” (art. 9); “nonché con l’esercizio di poteri sostitutivi nel caso di mancato adempimento da parte delle province” (art. 10); “provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia”, controllo che “esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l’utilizzo di metodi ecologici” (art. 19); istituiscono e disciplinano il fondo destinato al “risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica e dall’attività venatoria”, per “far fronte ai danni non altrimenti risarcibili arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati e a pascolo dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta” (art. 26). Dall’altro alle Province, invece, “spettano le funzioni amministrative in materia di caccia e di protezione della fauna secondo quanto previsto dalla L. 8 giugno 1990, n. 142, che esercitano nel rispetto della presente legge” (art. 9).

Con il D.Lgs. 28 settembre 2000, n. 267, poi, si è stabilito all’art. 19, superando la L. n. 142 del 1990, che alle Province spettano “le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale” nei settori della “protezione della flora e della fauna, parchi e riserve naturali”, nonché della “caccia e pesca nelle acque interne”.

Nonostante l’oscillazione degli orientamenti giurisprudenziale nell’arco dell’ultimo decennio, da ormai due anni la Suprema Corte ha chiarito la disciplina applicabile alle fattispecie oggetto di causa.

Difatti, la Corte ha da ultimo rinnovato la propria posizione chiarendo che, avendo l’ordinamento stabilito (con legge dello Stato) che il diritto di proprietà in relazione ad alcune specie di animali selvatici (precisamente quelle oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992) è effettivamente configurabile, in capo allo stesso Stato (quale suo patrimonio indisponibile) e, soprattutto, essendo tale regime di proprietà espressamente disposto in funzione della tutela generale dell’ambiente e dell’ecosistema, con l’attribuzione esclusiva a soggetti pubblici del diritto/dovere di cura e gestione del patrimonio faunistico tutelato onde perseguire i suddetti fini collettivi, la immediata conseguenza della scelta legislativa è l’applicabilità anche alle indicate specie protette del regime oggettivo di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. (cfr. Cassazione civile sez. III, 29/04/2020, n.8385).

L’esenzione degli enti pubblici dal regime di responsabilità oggettiva di cui all’art. 2052 c.c., non potendosi in diritto giustificare sulla impossibilità di configurare un effettivo rapporto di custodia per gli animali selvatici (non costituendo affatto la custodia il presupposto di applicabilità della disposizione che disciplina l’imputazione della responsabilità, ai sensi dell’art. 2052 c.c.), finirebbe, difatti, per risolversi in un ingiustificato privilegio riservato alla pubblica amministrazione.

La proprietà pubblica delle specie protette in uno alla funzione di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema attribuito alla regioni titolari di specifiche competenze normative ed amministrative, nonché di indirizzo e controllo sugli enti minori, determinano una situazione che di fatto è equiparabile a quella dell’utilizzazione degli animali richiesta dall’art. 2052 c.c. quale presupposto della responsabilità del proprietario per i danni cagionati a terzi o cose, salvo che questi provi il caso fortuito.

Ebbene, la Corte di Cassazione individua il soggetto proprietario e quindi responsabile ex art. 2052 c.c. nelle Regioni, dal momento che sono le Regioni gli enti territoriali cui spetta, in materia, non solo la funzione normativa, ma anche le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte (per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari) da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi, per i casi di eventuali omissioni. Sono dunque in sostanza le Regioni gli enti che “utilizzano” il patrimonio faunistico protetto al fine di perseguire l’utilità collettiva di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (cfr. Cassazione civile sez. III, 29/04/2020, n.8385).

Così individuato il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c., per i danni causati dagli animali selvatici appartenenti alle specie protette che rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato, e chiarito che il soggetto pubblico tenuto a risponderne nei confronti dei privati danneggiati (salva la prova del caso fortuito) è la Regione, quale ente competente a gestire la fauna selvatica in funzione della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ne consegue che, in applicazione del criterio oggettivo di cui all’art. 2052 c.c., sarà naturalmente il danneggiato a dover allegare e dimostrare che il danno è stato causato dall’animale selvatico. Sull’attore graverà quindi l’onere dimostrare la dinamica del sinistro nonchè il nesso causale tra la condotta dell’animale e l’evento dannoso subito.

Per quanto riguarda la prova liberatoria, il cui onere grava invece sulla Regione, essa dovrà consistere, ai sensi dell’art. 2052 c.c., nella dimostrazione che il fatto sia avvenuto per “caso fortuito”. La Regione, per liberarsi dalla responsabilità del danno cagionato dalla condotta dell’animale selvatico dovrà cioè dimostrare che la condotta dell’animale si sia posta del tutto al di fuori della sua sfera di possibile controllo.

Ciò posto, anche laddove risulti che le misure che avrebbero potuto impedire il danno avrebbero dovuto essere poste in essere non direttamente dalla stessa Regione, ma da un altro ente, cui spettava il relativo compito in quanto era stato a tanto delegato, una tale eventualità non modifica, in relazione all’azione posta in essere dal danneggiato, il criterio di individuazione del cd. legittimato passivo (cioè dell’ente cui è imputabile la responsabilità del danno sul piano sostanziale), che resta in ogni caso la Regione.

La regione potrà unicamente rivalersi nei confronti di detto ente. In tal caso l’onere di dimostrare l’assunto della effettiva responsabilità del diverso ente spetterà alla Regione, che non potrà naturalmente avvalersi del criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c., ma dovrà fornire la specifica prova della condotta colposa dell’ente convenuto in rivalsa, in base ai criteri ordinari.

Tuttavia, tale aspetto relativo alla domanda di manleva avanzata dalla regione nei confronti degli Enti Terzi chiamati verrà approfondito successivamente.

Nel merito, alla luce della suddetta impostazione giurisprudenziale, risulta che nel caso di specie la domanda dell’attrice meriti accoglimento, nei limiti di quanto si va ad esporre.

Difatti, l’istruttoria svolta e l’escussione dei testimoni hanno confermato, per mezzo di indizi gravi precisi e concordanti la dinamica del sinistro, ossia l’improvviso attraversamento della strada da parte di un cinghiale di grossa taglia, l’impatto dell’animale con il veicolo oggetto di giudizio, senza possibilità per il conducente di evitare il predetto impatto, viste le note dimensioni dell’animale di cui si discute, con conseguente produzione di danni al veicolo.

Sul punto, non soltanto risulta prodotto in giudizio (doc. 4 attore) il fascicolo degli accertamenti compiuti sul luogo del sinistro dai Carabinieri intervenuti, ma l’App. (omissis) intervenuto sul luogo del sinistro (escusso all’udienza del 29.01.2020), ha confermato di essersi recato in data 01.10.2016, alle ore 00:10 circa all’altezza del km. 5 di Via Cinto in località Fontanafredda di Cinto Euganeo (PD), che lo stesso aveva constatato la presenza della carcassa del cinghiale, al lato della strada, di cui alla foto prodotta sub. doc. 3 del fascicolo attoreo. Lo stesso ha ricordato inoltre trattarsi di una serata serena, ma di un tratto di strada non illuminato, oltre ad evidenziare la chiazza dell’olio lasciato dell’autovettura. La teste (omissis) ha confermato che la propria autofficina ha proceduto al ritiro del veicolo dalla sede del sinistro, con successiva riparazione dello stesso.

Nel caso di specie, in ogni caso, la responsabilità del conducente del veicolo è espressa dalla Regione in formula del tutto dubitativa. Anche la contestazione della dinamica del sinistro è espressa in forma del tutto dubitativa e probabilistica, e tale assunto della Regione è rimasto immutato anche dopo l’escussione dei testimoni in giudizio.

L’assenza di testimoni oculari presenti al sinistro non può valere per ciò solo ad impedire la ricostruzione della dinamica dello stesso che, come nel caso di specie, ben può essere fornita anche per mezzo di indizi gravi precisi e concordanti.

L’impatto tra l’animale ed il veicolo attoreo si verificava alle ore 00:10 circa del 01.10.2016 in una strada con illuminazione mancante e dunque in scarse condizioni di visibilità (Cfr. relazione d’incidente – doc. 4 fascicolo attoreo). Ancora, va evidenziato che la condotta di guida del conducente possa essere considerata scevra da censure, anche perché alcuna contravvenzione è stata elevata allo stesso.

Alcuna prova è stata fornita dalla Regione circa l’eventuale imputabilità del sinistro al conducente e, soprattutto, alla luce dei gravi danni al veicolo, e della mancata prova circa la presenza nel tratto dell’impatto di segnaletica stradale adeguata, risulta del tutto superata dall’attore la presunzione di corresponsabilità nella causazione del sinistro, di modo che, non si possa pretendere dal conducente, quale unica possibilità di evitare l’impatto con la fauna selvatica, quella di procedere a passo d’uomo.

La stessa Regione esprime in forma del tutto probabilistica la possibilità, del tutto eventuale, per il conducente, di evitare l’impatto, in caso di conduzione a velocità regolare.

Lo stesse teste escusso in giudizio App. (omissis) ha confermato che la zona dei colli è sì provvista di cartelli e segnaletica stradale, ma che nel punto dell’impatto quella segnaletica non era presente, e in ogni caso trattasi di strada dalla lunghezza notevole.

Quindi, dalle risultanze delle prove orali, era comunque emerso che nello specifico tratto di strada considerato, non vi fosse adeguata segnaletica in ordine alla presenza di animali selvatici, né presidi di contenimento visibili.

Si badi anche solo che la stessa Regione indica che il sinistro si sarebbe verificato, come si è verificato, anche in caso di adeguata segnaletica stradale presente sul luogo.

Né può assumere rilevanza in tal senso quanto dedotto dalla Regione Veneto circa l’assenza di prova della colpa o del dolo di quest’ultima nella causazione dell’evento, stante la responsabilità oggettiva alla stessa ascrivibile per tutto quanto poc’anzi esplicato, come tale escludibile unicamente laddove quest’ultima dia prova del caso fortuito.

Al tempo stesso, alcuna prova del caso fortuito è stata fornita dalla Regione convenuta, la quale è quindi responsabile dei prodottisi sul veicolo.

Alla luce dell’istruttoria compiuta, e sulla base del criterio civilistico del più probabile che non, risulta quindi provato anche il nesso causale tra il sinistro e i danni prodotti.

Nel caso di specie, ai fini della quantificazione dei danni emergenti, occorre fare riferimento alle somme accertate dal CTU, alle cui valutazioni il Giudice aderisce quasi del tutto, essendo prive di vizi logici o motivazionali.

Il CTU peraltro, ha anche adeguatamente tenuto conto del profilo di eventuale anti-economicità della riparazione, indicando quindi le somme seguenti: Valore ante sinistro del veicolo – Valore del relitto + Spese Accessorie = Danno emergente (2.500,00 €) – (300,00 €) + (1.290,00 €) = 3.490,00 euro.

Tuttavia, dalle somme stimate dal Consulente va rimossa la somma pari a 420,00 euro, indicata quale fermo tecnico e reperimento di altro mezzo.

Sul punto, difatti, in ordine alla richiesta di risarcimento del danno da “fermo tecnico”, consistente nell’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per le riparazioni, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità oggi prevalente afferma che il danno da fermo tecnico non può considerarsi sussistente in re ipsa, quale conseguenza automatica dell’incidente, ma può essere risarcito solo con la prova che il mezzo non potesse essere utilizzato e che il proprietario avesse necessità di servirsene e sia dovuto ricorrere a mezzi sostitutivi o abbia perso l’utilità economica che ritraeva dall’uso del mezzo.

La Suprema Corte ha infatti affermato il principio secondo cui “il danno da “fermo tecnico” di veicolo incidentato deve essere allegato e dimostrato e la relativa prova non può avere ad oggetto la mera indisponibilità del veicolo, ma deve sostanziarsi nella dimostrazione o della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo ovvero della perdita subita per la rinuncia forzata ai proventi ricavabili dall’uso del mezzo” (Cass. Ordinanza n. 5447/2020; Cass. n. 13718/2017; Cass. 20620/2015).

Questo Giudice ritiene di non discostarsi da questo orientamento e, non risultando debitamente allegate le circostanze in punto di necessità di un mezzo sostitutivo e rinunce subite, rigetta la domanda proposta, non avendo l’attrice fornito la prova specifica di tale voce di danno, e non essendo la stessa liquidabile in via equitativa.

Occorre quindi riconoscere la somma di danno emergente pari ad euro 3.070,00.

Ancora, risulta meritevole di accoglimento la somma richiesta dall’attrice a titolo di danno emergente a pari alla spese per l’assistenza legale stragiudiziale, indicata in euro 1.378,87.

Difatti, la Suprema Corte ha recentemente chiarito che in punto di somme in esame è necessaria un’attività di valutazione: “l’utilità di tale esborso, ai fini della possibilità di porlo a carico del danneggiante, deve essere valutata “ex ante”, cioè in vista di quello che poteva ragionevolmente presumersi essere l’esito futuro del giudizio” (Cassazione Civile Sez. VI 10 dicembre 2021 n. 39384).

Infatti, la spesa di questa attività non può essere esclusa per il fatto che l’intervento dell’avvocato non abbia fatto recedere la controparte dalla posizione assunta in ordine all’aspetto della vicenda che era stato oggetto di discussione e di assistenza in sede stragiudiziale (Cass. Civ. Sez. VI, ordinanza 13 marzo 2017 n. 6422; principio già emesso con nota sentenza Cass. Civ. Sez. III 21 gennaio 2010 n. 997, ribadito in Cass. Civ. Sez. II 7 ottobre 2020 n. 21565).

Si ritiene, alla luce dei suddetti principi, che le spese stragiudiziali di assistenza legale siano state nel caso di specie del tutto giustificate e pertinenti alla concreta possibilità di evitare il giudizio.

Oltre alla proforma di parcella prodotta con atto di citazione, la somma richiesta risulta del tutto conforme ai parametri normativi, vista anche la corrispondenza e le raccomandate inviate dal legale in via stragiudiziale, e prodotte con atto di citazione.

La Regione deve quindi essere condannata a risarcire l’attrice della somma complessiva pari ad euro 4.448,87, oltre rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat dalla data del sinistro (1.10.2016) fino alla data della presente sentenza, oltre gli interessi legali sulla somma di anno in anno rivalutata secondo gli indici Istat dalla data del sinistro (1.10.2016) fino al momento della presente decisione, nonché ulteriori interessi legali sulla somma interamente rivalutata dal momento della presente decisione al saldo.

Per quanto riguarda, da ultimo, la domanda avanzata dalla regione di manleva da parte degli Enti Terzi chiamati Provincia di Padova e Ente Parco dei Colli Euganei, si osserva quanto chiarito recentemente sul punto dalla Suprema Corte.

La stessa, difatti, nella pronuncia sezione III civile sentenza 10 gennaio – 20 aprile 2020, n. 7969 sopra citata, ha chiarito che laddove il danno si assuma essere stato causato dalla condotta negligente di un diverso ente, cui spettava il compito (trattandosi di funzioni di sua diretta titolarità ovvero delegate) di porre in essere le misure adeguate di protezione nello specifico caso omesse e che avrebbero impedito il danno, la stessa Regione potrà rivalersi nei confronti di detto ente e, naturalmente, potrà anche, laddove lo ritenga opportuno, chiamarlo in causa nello stesso giudizio avanzato nei suoi confronti dal danneggiato, onde esercitare la rivalsa (in tal caso l’onere di dimostrare l’assunto della effettiva responsabilità del diverso ente spetterà alla Regione, che non potrà naturalmente avvalersi del criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c., ma dovrà fornire la specifica prova della condotta colposa dell’ente convenuto in rivalsa, in base ai criteri ordinari.

Nell’ambito dell’azione di rivalsa tra la Regione e l’ente da questa indicato come effettivo responsabile potranno quindi assumere rilievo tutte le questioni inerenti al trasferimento o alla delega di funzioni alle Province (ovvero eventualmente ad altri enti) e l’effettività della delega stessa (anche sotto il profilo del trasferimento di adeguata provvista economica, laddove ciò possa ritenersi rilevante in tale ottica), così come tutte le questioni relative al soggetto effettivamente competente a porre in essere ciascuna misura di cautela (ivi incluse le segnalazioni di pericolo per gli utenti nelle strade ed in altre aree eventualmente gestite da specifici enti, pubblici o privati, con la eventuale necessità che, laddove il pericolo da segnalare non potesse essere noto all’ente gestore, gli fosse preventivamente segnalato dall’autorità competente).

Peraltro, i principi sanciti dalla giurisprudenza sopra richiamata, impongono di operare quella verifica afferente l’effettiva esistenza di una delega di funzioni operata dalla regione nei confronti della provincia, tale da legittimare una rivalsa della prima nei confronti della seconda.

Nel caso di specie, la normativa citata dalla Regione, non assume rilevanza e non vale a ritenere trasferita agli Enti Terzi chiamati una specifica delega o competenza nell’ambito in esame.

La regione ha richiamato non solo la disciplina a valenza nazionale, ma anche la legge regionale del Veneto 50/1993, allegando che: “parimenti, l’art. 2 della L.R.n. 50/1993 ha previsto che alla Regione spettino le funzioni amministrative di programmazione e di controllo, rimanendo di competenza delle Province quelle assegnate dalla stessa legge e dalla L.n. 157/1992. Agli artt. 17 e 34 della L.R. citata, viene altresì indicato che sono compiti delle Province rispettivamente quelli di controllare la fauna selvatica e domestica inselvatichita anche nelle zone vietate alla caccia e vigilare sull’applicazione delle norme sulla fauna selvatica. In seguito, in materia sono state emanate la L.R.n. 20/1997 e la L.R.n. 23/1998, la quale all’art. 4 definisce che sono di spettanza di Province, Comuni e Comunità Montane tutte le funzioni amministrative che ne esigono una gestione unitaria a livello regionale. Tra i vari provvedimenti attuativi si segnala la DGR n. 1449/2009 con la quale sono stati disposti finanziamenti a favore delle Province per il compimento di approfondimenti conoscitivi e di interventi gestionali al fine di ridurre gli incidenti stradali causati dagli ungulati”.

Tuttavia, la legge regionale richiamata dalla Regione non assume rilevanza ai fini del riconoscimento di una delega di funzioni e responsabilità in capo alla Provincia ed infatti gli articoli richiamati, ricalcano le disposizioni generali già esaminate (cfr. legge 27 dicembre 1977, n. 968; legge 11 febbraio 1992, n. 157; D.Lgs. 28 settembre 2000, n. 267, art. 19) in base alle quali non si perviene ad uno spostamento della responsabilità dalle regioni alle province non integrando, per le ragioni già esaminate, una formale delega di funzioni.

La Regione non ha quindi esposto od indicato, come era suo onere, alcuna normativa specifica implicante uno spostamento di responsabilità in capo alle Province.

Allo stesso modo non incide il potere di vigilanza del rispetto delle disposizioni richiamate attribuito alle province, per il semplice assunto per cui le disposizioni a monte non sono qualificabili come integranti una delega di funzioni e responsabilità in capo all’ente provinciale.

Ne deriva quindi che dall’esame della normativa regionale non si ravvisa alcuna delega in capo alla Provincia di Padova operata dalla Regione Veneto, tale da ricondurre in capo alla prima la responsabilità per i danni cagionati dagli animali selvatici.

Non risulta quindi provata dalla Regione la delega e l’attribuzione alla Provincia di una specifica responsabilità per i sinistri causati dalla fauna selvatica.

Per quanto riguarda l’Ente Parco, occorre operare una valutazione analoga, vista l’assenza di qualsivoglia disciplina che abbia trasferito allo stesso la responsabilità per i sinistri come quello di cui è causa.

Peraltro, come visto, in punto di onere della prova, la regione avrebbe dovuto “fornire la specifica prova della condotta colposa dell’ente convenuto in rivalsa, in base ai criteri ordinari. Nell’ambito dell’azione di rivalsa tra la Regione e l’ente da questa indicato come effettivo responsabile potranno quindi assumere rilievo tutte le questioni inerenti al trasferimento o alla delega di funzioni alle Province (ovvero eventualmente ad altri enti) e l’effettività della delega stessa (anche sotto il profilo del trasferimento di adeguata provvista economica, laddove ciò possa ritenersi rilevante in tale ottica), così come tutte le questioni relative al soggetto effettivamente competente a porre in essere ciascuna misura di cautela” (Cass. 7969/2020).

Ebbene, tale prova non è stata in alcun modo fornita dalla Regione Veneto, risultando invece dimostrato che l’Ente Parco non gode di una reale autonomia decisionale e operativa, e non disponeva di margini di operatività sufficienti tali da poter prevenire qualsivoglia evento di danno cagionato da cinghiali selvatici. Il Parco Colli Euganei è un ente strumentale della Regione del Veneto, da quest’ultima controllato e soprattutto finanziato. Ai sensi della L.R. n. 53/1993 e s.m.i., infatti, la Regione Veneto esercita il controllo sugli atti più importanti del Parco, quali i piani, programmi, progetti, bilanci e regolamenti.

Valga a suffragare tale conclusione, anche la circostanza per cui il Piano Triennale di gestione e controllo – a fini di eradicazione – del cinghiale, approvato con la deliberazione n. 598 del 28 aprile 2017 e ss. mm., è successivo ai fatti di causa, a testimonianza del fatto che l’Ente Parco Colli non godeva e non gode di margini di operatività sufficiente a poterne configurare la colpevolezza per il sinistro de quo.

La domanda di manleva avanzata dalla Regione nei confronti degli enti terzi chiamati Provincia di Padova e Ente Parco dei colli Euganei non merita quindi accoglimento.

Per contro, non risultano elementi per accogliere la domanda avanzata dall’attrice ex art. 96 c.p.c.

Le spese di lite seguono la soccombenza e sono quindi poste interamente a carico della Regione, considerato che il ridotto scarto tra la somma richiesta in atto di citazione e quella oggetto di accertamento giudiziale non vale di per sé a giustificare una neppure parziale compensazione delle spese di lite.

A tale riguardo, peraltro, si consideri anche soltanto come la somma risarcitoria oggetto di accertamento giudiziale sia più elevata rispetto a quella oggetto dell’ultima proposta conciliativa avanzata dal Giudice e ingiustificatamente rifiutata dalla Regione convenuta, con accettazione, per contro, sia da parte dell’attrice che da parte dell’Ente terzo chiamato Ente Parco dei Colli Euganei.

Le spese di lite si liquidano come da D.M. 55/2014.

Vanno poste interamente a carico della Regione anche le spese di CTU, liquidate come in atti, oltre alle spese di CTP di parte attrice, documentate in euro 671,00.

P.Q.M.

Il Tribunale di Rovigo definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza disattesa, così provvede:

1) Accoglie la domanda attorea e condanna la Regione del Veneto in persona del legale rappresentate pro tempore al risarcimento dei danni in favore di (omissis) per euro 4.448,87, oltre rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat dalla data del sinistro (1.10.2016) fino alla data della presente sentenza, oltre gli interessi legali sulla somma di anno in anno rivalutata secondo gli indici Istat dalla data del sinistro (1.10.2016) fino al momento della presente decisione, nonché ulteriori interessi legali sulla somma interamente rivalutata dal momento della presente decisione al saldo;

2) Rigetta le domande della convenuta Regione del Veneto;

3) Condanna la Regione del Veneto a rifondere all’attrice (omissis) le spese di lite pari ad euro 4.835,00 per compensi ed euro 264,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario del 15%, Iva e Cpa come per legge, da versarsi in favore del procuratore della parte attrice dichiaratosi antistatario;

4) Condanna la Regione del Veneto a rifondere al terzo chiamato Ente Parco Regionale dei Colli Euganei le spese di lite pari ad euro 4.835,00, oltre al rimborso forfettario del 15%, Iva e Cpa come per legge;

5) Pone definitivamente in capo alla Regione del Veneto le spese di CTU liquidate come in atti;

6) Condanna la Regione del Veneto a rimborsare all’attrice le spese di CTP pari ad euro 671,00.

Si comunichi.

Rovigo, il 03/06/2022

Il Giudice

Dott.ssa Federica Abiuso

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Trib. Rovigo sent. 504-2022

Modello Organizzativo 231

Modello 231: la sua mancanza non può automaticamente mettere in colpa l’azienda (Cass. pen. 18413/22)

Cassazione penale, Sez. IV, Sentenza del 10/05/2022, n. 18413

IL PASSO SALIENTE DELLASENTENZA

[…] l’affermata “mancanza del modello organizzativo” non può costituire elemento tipico dell’illecito amministrativo in contestazione, per la cui sussistenza occorre invece fornire positiva dimostrazione della sussistenza di una “colpa di organizzazione” dell’ente, aspetto che non è stato minimamente affrontato dalla Corte territoriale.[…]

“[…] gli aspetti che riguardano le dotazioni di sicurezza e i controlli riguardanti il macchinario specifico sul quale si è verificato l’infortunio, attengono essenzialmente a profili di responsabilità del soggetto datore di lavoro; quindi, a profili colposi degli amministratori della società cui è stato addebitato il reato, in relazione alla riscontrata violazione della normativa per tutela della sicurezza sul lavoro. Tali profili, di per sè, nulla hanno a che vedere con l’elemento “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente. Tale elemento costituisce, per così dire, un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all’ente di commettere il reato.

In tale prospettiva, l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perchè fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn).

Ne consegue che, nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001. La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui).”

LA SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DOVERE Salvatore – Presidente –

Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Aldo – Consigliere –

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –

Dott. RANALDI Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS);

avverso la sentenza del 11/01/2021 della CORTE APPELLO di VENEZIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRO RANALDI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. PEDICINI Ettore, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità;

E’ presente l’avvocato GENTILINI GIOVANNI del foro di PADOVA in difesa di: (OMISSIS);

Il difensore presente chiede l’accoglimento del ricorso.

 Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 11.1.2021, la Corte di appello di Venezia ha confermato la decisione del Tribunale di Vicenza che aveva ritenuto la S.r.l. (OMISSIS) (d’ora in poi, (OMISSIS)) responsabile dell’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-septies, comma 3, per avere – come ente alle cui dipendenze lavorava la persona offesa R.I., rimasta ferita alla mano sinistra durante una operazione di raddrizzamento di un cartone che non scorreva correttamente nella macchina piegatrice e incollatrice in uso – consentito il verificarsi del reato di lesioni personali, aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica; reato contestato al legale rappresentante della società, commesso – secondo l’accusa – nell’interesse dell’ente, in ragione dell’assenza di un modello organizzativo avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro, e in particolare di un organo di vigilanza che verificasse con sistematicità e organicità la rispondenza delle macchine operatrici, acquistate e messe in linea, alle normative comunitarie in tema di sicurezza, nonchè l’adeguatezza dei sistemi di sicurezza installati sulle stesse (incidente avvenuto il (OMISSIS)).

La Corte di appello, nel confermare la responsabilità dell’ente, ha dato atto della mancanza – nel macchinario e all’epoca dei fatti – di un dispositivo di spegnimento automatico in caso di toccamento delle lamiere, solo successivamente integrato nel dispositivo; ha, quindi, individuato l’interesse della società, idoneo a configurare la responsabilità della (OMISSIS), nella mancata rivalutazione e monitoraggio dell’adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, in quanto privo dei dispositivi di blocco necessari ad evitare infortuni come quello in esame, avvenuto nel 2011, nonchè la mancanza di un modello organizzativo in materia prevenzionistica.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore della (OMISSIS), lamentando quanto segue.

Violazione di legge e vizio di motivazione, per avere, da una parte, riconosciuto come la lavoratrice fosse esperta e istruita adeguatamente quanto a conoscenza delle procedure e dei rischi, e ciononostante avesse, in occasione dell’infortunio, agito d’istinto, spostando il foglio con la mano senza fermare la macchina per non rallentare il lavoro; dall’altra, nonostante la lavoratrice avesse tenuto un comportamento antitetico al modello insegnato e conosciuto, i giudici di merito hanno omesso di riconoscere l’interruzione del nesso causale ovvero, in subordine, non hanno reso specifica motivazione sulle ragioni per le quali la società sia tenuta a rispondere “oggettivamente” di qualsivoglia atteggiamento istintuale, posto in essere persino da una lavoratrice esperta.

Deduce, inoltre, la contraddizione in cui incorre la sentenza impugnata, laddove addebita alla società la mancata rivalutazione in ordine all’adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, nonostante abbia in precedenza dato conto degli esiti dei controlli del 2008 effettuati dall’Organismo Notificato CE nonchè di quelli del 2009 ad opera del Dott. M., tecnico incaricato dall’ente allo scopo.

Rileva come la Corte territoriale non abbia fornito alcuna risposta in merito all’esistenza dell’interesse in capo all’ente, direttamente derivante dall’omessa adozione del c.d. modello organizzativo, a fronte di costi assai elevati sostenuti dall’ente in materia di sicurezza, come documentato in appello, a dimostrazione di una costante scelta aziendale di investimento e spese in sicurezza, incompatibile con l’affermata finalità orientata al risparmio sui conti d’impresa.

Osserva, infine, come nella specie non sia stato evidenziato alcun concreto collegamento finalistico tra la violazione prevenzionistica e l’interesse dell’ente, nè alcun concreto vantaggio di cui avrebbe beneficiato la società ricorrente dalle riscontrate omissioni.

Motivi della decisione

1. Il ricorso merita accoglimento, per le ragioni di seguito indicate.

2. Occorre prendere le mosse dalla struttura dell’addebito contestato all’ente, che attiene all’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-septies, comma 3; il reato presupposto indicato è quello di lesioni personali subite dalla dipendente R.I., aggravato dalla violazione di norme prevenzionistiche, commesso da soggetti rivestenti posizioni apicali nell’ente; il fatto ascritto alla (OMISSIS) è quello di avere “reso possibile” il verificarsi del detto reato, in quanto commesso nel suo interesse, stante l’assenza di un modello organizzativo avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro, ed in particolare l’assenza di un organo di vigilanza preposto alla verifica dei sistemi di sicurezza delle macchine operatrici.

Non si può fare a meno di osservare che già dalla descrizione del capo d’accusa non emerga con chiarezza il concreto profilo di responsabilità addebitato alla società (OMISSIS) ai sensi della disciplina del decreto n. 231, avuto riguardo al menzionato interesse dell’ente rapportato alla riscontrata assenza di un “modello organizzativo”, nozione che si riconduce a quei “modelli di organizzazione e di gestione” richiamati dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 6 e 7, la cui efficace adozione consente all’ente di non rispondere dell’illecito, ma la cui mancanza, di per sè, non può implicare un automatico addebito di responsabilità.

3. In proposito, sarà utile accennare ad alcune nozioni che attengono al sistema di responsabilità dei soggetti collettivi delineato dal D.Lgs. n. 231 del 2001, dando conto di alcuni principi giurisprudenziali sviluppati sul tema, trattandosi di materia aventi indubbie peculiarità sotto il profilo giuridico.

E’ noto che sussistono due criteri d’imputazione oggettiva del fatto illecito all’ente in quanto tale, nel senso che l’illecito amministrativo a carico del soggetto collettivo si configura quando la commissione del reato presupposto (da parte delle persone fisiche che agiscono per conto dell’ente) sia funzionale ad uno specifico interesse o vantaggio a favore dell’ente stesso (v. art. 5 del D.Lgs. n. 231 cit.); si tratta di concetti alternativi e concorrenti tra loro, in quanto l’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (cfr. S.U. n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261113-01).

La Suprema Corte ha recentemente ribadito che la struttura dell’illecito addebitato all’ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale corrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno unicamente la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggettò incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo (così, in motivazione, Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo). Ciò consente di affermare che l’ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui, ma non pone al riparo da possibili profili di responsabilità meramente oggettiva, sicchè il giudice di legittimità ha affermato “la necessità che sussista la c.d. ‘colpa di organizzazionè dell’ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo. Grava sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza e l’accertamento dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell’interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende ‘per rimbalzò dall’individuo all’ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo” (cfr. Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, Scarafia, Rv. 247666).

Si tratta di un’interpretazione che attribuisce al requisito della “colpa di organizzazione” dell’ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione “colpevole” (ovvero rimproverabile) della regola cautelare.

Sotto questo profilo, la già citata Sez. 4, n. 32899/2021 ha efficacemente osservato che proprio l’enfasi posta sul ruolo della colpa di organizzazione e l’assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, convince che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente al Dlgs. n. 231 del 2001, artt. 6 e 7, e al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 30, non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale va però specificamente provata dall’accusa, mentre l’ente può dare dimostrazione della assenza di tale colpa.

Pertanto, l’assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell’illecito dell’ente. Tali sono, oltre alla compresenza della relazione organica e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l’ente (cd. immedesimazione organica “rafforzata”), la colpa di organizzazione, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due.

4. Le superiori considerazioni spiegano le iniziali perplessità manifestate dal Collegio con riferimento alla struttura dell’illecito delineata nel capo di imputazione, nel quale, in buona sostanza, ci si limita ad addebitare all’ente la mera assenza di un modello organizzativo, senza specificare in positivo in cosa sarebbe consistita la “colpa di organizzazione” da cui sarebbe derivato il reato presupposto, che è cosa diversa dalla colpa riconducibile ai soggetti apicali autori del reato. Questi ultimi, infatti, sono stati ritenuti colpevoli del reato in ragione della commissione di specifiche omissioni e violazioni della normativa prevenzionistica, nella loro qualità di datori di lavoro; l’ente, di contro, risponde a diverso titolo – di un illecito distinto, sia pure derivante dal medesimo reato.

5. La motivazione della sentenza impugnata rispecchia la carente ed ambigua formulazione dell’editto accusatorio, offrendo a sua volta un percorso argomentativo carente e contraddittorio in punto di responsabilità dell’ente, per certi versi sovrapponendo e confondendo i profili di responsabilità da reato degli amministratori/datori di lavoro dai profili di responsabilità da illecito amministrativo della (OMISSIS).

Ciò appare evidente nella parte in cui la sentenza impugnata, sostanzialmente, addebita alla (OMISSIS) la riscontrata mancanza del dispositivo di spegnimento automatico del macchinario, la cui implementazione avrebbe impedito l’evento, e l’omessa verifica periodica dei macchinari; profili colposi indubbiamente ascrivibili agli amministratori della società, quali datori di lavoro tenuti al rispetto delle norme prevenzionistiche, ma non per questo automaticamente addebitabili all’ente in quanto tale.

6. I giudici di merito, in definitiva, fondano la responsabilità amministrativa della (OMISSIS) sulla “accertata mancanza del modello organizzativo” e sul conseguente “risparmio di spesa quale tempo lavorativo da dedicare alla sua predisposizione ed attuazione”, richiamando, genericamente, ulteriori voci di (possibile) risparmio di spesa (si accenna ai costi sulle consulenze, sugli interventi strumentali e sulle attività di formazione e di informazione del personale, peraltro senza spiegarne la rilevanza specifica al caso in esame).

Ebbene, si è già visto che l’affermata “mancanza del modello organizzativo” non può costituire elemento tipico dell’illecito amministrativo in contestazione, per la cui sussistenza occorre invece fornire positiva dimostrazione della sussistenza di una “colpa di organizzazione” dell’ente, aspetto che non è stato minimamente affrontato dalla Corte territoriale.

Peraltro, i giudici di appello cadono anche in contraddizione laddove, da una parte, affermano che nel caso vi sarebbe stata una mancata rivalutazione e monitoraggio dell’adeguatezza del macchinario, risalente al 2001, rispetto alla data dell’infortunio, avvenuto nel 2011; dall’altra, accennano ad un esame visivo e funzionale del macchinario ad opera dell’Organismo notificato CE, avvenuto nel 2008, circostanza che, unitamente al riscontrato documento di valutazione dei rischi redatto nel giugno 2009 dal Dott. M. (che rispetto al rischio relativo alla presa e trascinamento degli arti aveva ritenuto adeguate le protezioni esistenti), sembra smentire l’assunto iniziale della Corte di merito.

E’ bene, tuttavia, ribadire e sottolineare che gli aspetti che riguardano le dotazioni di sicurezza e i controlli riguardanti il macchinario specifico sul quale si è verificato l’infortunio, attengono essenzialmente a profili di responsabilità del soggetto datore di lavoro; quindi, a profili colposi degli amministratori della società cui è stato addebitato il reato, in relazione alla riscontrata violazione della normativa per tutela della sicurezza sul lavoro. Tali profili, di per sè, nulla hanno a che vedere con l’elemento “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente. Tale elemento costituisce, per così dire, un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all’ente di commettere il reato.

In tale prospettiva, l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perchè fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn).

Ne consegue che, nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001. La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui).

Ciò rafforza l’esigenza che la menzionata colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell’ente) responsabile del reato.

7. La conclusione, sulla scorta delle superiori considerazioni, è che la Corte territoriale non ha motivato sulla concreta configurabilità, nella vicenda in esame, di una colpa di organizzazione dell’ente, nè ha stabilito se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto.

Invero, la sentenza impugnata appare affetta da evidenti errori in diritto, in quanto ha offerto una inammissibile lettura della norma di cui all’art. 25-septies cit., in base alla quale l’affermazione della responsabilità dell’ente consegue indefettibilmente alla sola dimostrazione della sussistenza del reato presupposto e del rapporto di immedesimazione organica dell’agente; il tutto, fra l’altro, attribuendo all’organismo di vigilanza compiti incardinati nel sistema di gestione della sicurezza (dei macchinari aziendali) del tutto estranei ai compiti che l’art. 6 del D.Lgs. n. 231 del 2001 assegna a tale organismo, che sono essenzialmente quelli di sorvegliare e verificare regolarmente la funzionalità e l’osservanza dei modelli organizzativi richiamati dallo stesso art. 6 cit.

I giudici di merito, invece, avrebbero dovuto approfondire anche e soprattutto l’aspetto, relativo al concreto assetto organizzativo adottato dall’impresa in tema prevenzione dei reati della specie di quello dal quale ci si occupa in maniera tale da evidenziare la sussistenza di eventuali deficit di cautela propri di tale assetto, causalmente collegati con il reato presupposto.

8. Consegue l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al giudice di merito individuato in dispositivo, che si atterrà ai principi indicati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.

Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2022