Titolo

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Scudo per evitare il fallimento

Modello Organizzativo 231

Modello 231: non sussiste alcun automatismo tra l’adozione del modello e la concessione dell’attenuante (Cass. pen., 50770/23)

Non può trovare applicazione l’attenuante di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 1, lett. b) (id est riduzione della sanzione per particolare tenuità della pena) per quei reati che si esauriscono in violazioni “formali” e di pericolo astratto, in cui vengono punite determinate condotte indipendentemente e a prescindere dalla produzione di un danno, patrimoniale e non patrimoniale.

Non sussiste, in altre parole, alcun automatismo tra l’adozione del modello e la concessione dell’attenuante, che è invece subordinata ad un giudizio di natura fattuale, essendo il giudice tenuto a verificare se la lettera della norma sia stata rispettata specificatamente e nel suo complesso.

Pertanto non può farsi luogo ad alcuna riduzione di pena se il reato è di pericolo ed in questa prospettiva la mera “adozione” del MOG non è sufficiente a far scattare l’attenuante: a parer degli Ermellini, insomma, non basta la forma ma occorre pure la sostanza!

Cassazione penale, Sez. III, Sentenza del 20/12/2023, n. 50770

(Dott. RAMACCI Luca – Presidente – Dott. GALANTI Alberto – rel. Consigliere)

(omissis)

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 529/2022 del 26/10/2022, il Tribunale di Campobasso condannava la società (Omissis) s.p.a, corrente in (Omissis) (c.f. e p.i. (Omissis)) alla sanzione pecuniaria di Euro 77.400,00, in relazione all’illecito amministrativo da reato di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-undecies, comma 2, in relazione al reato presupposto di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, commi 1 e 2, commesso dal suo “apicale” A.A. (presidente del C. di A. e L.R. della società), per avere di fatto consentito, a interesse o vantaggio dell’ente, che gli impianti di depurazione siti in località San Pietro del Comune di Campobasso effettuassero uno smaltimento illecito di fanghi di depurazione prodotti (effettuato mediante diluizione dei fanghi – rifiuti speciali – con i le acque reflue di scarico e/o prelevando e sversando detti fanghi direttamente nel corpo idrico superficiale), valutabile nell’ordine di centinaia di tonnellate, diluendo con i medesimi le acque reflue di scarico ovvero sversando tali fanghi direttamente nel corso d’acqua denominato “Rivolo”. In (Omissis).

2. Avverso tale sentenza l’ente propone, tramite il proprio difensore di fiducia, ricorso per cassazione lamentando quanto segue.

2.1. Con il primo motivo, lamenta inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento al D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 2 e 25-undecies.

Evidenzia come nel catalogo dei reati presupposto per la responsabilità amministrativa da reato degli enti non è incluso D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 2, come erroneamente indicato nella sentenza, che va pertanto annullata;

2.2. Con il secondo motivo lamenta violazione di legge in riferimento al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256 e D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-undecies, nonchè dell’art. 192 c.p.p.. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e travisamento della prova.

Contesta, il ricorrente, che l’affermazione della sussistenza del reato presupposto si basa essenzialmente sulla relazione di consulenza del dottor B.B., escusso l’udienza del 19 maggio 2021.

2.2.1. Il consulente avrebbe infatti basato la sua analisi su dati meramente teorici, non confermato da alcun accertamento. Inoltre, i calcoli eseguiti dal suddetto consulente sono vulnerati da alcune contraddizioni, quale quella relativa alla produzione annua attesa.

2.2.2. Il Tribunale ha inoltre ritenuto di non dover considerare (qualificandole come “apodittiche”) le osservazioni del consulente di parte, Dott. C.C., il quale da un lato ha evidenziato come la consulenza del pubblico ministero non distinguesse tra fango “tal quale” e “sostanza secca”, e che, dall’altro, sarebbe stato più facile e conveniente per la società attivare il cosiddetto “by-pass”, evitando la produzione stessa del fango.

2.2.3. Evidenziava inoltre il consulente della difesa l’evidente contraddizione tra la contestazione relativo al presente procedimento è quella di cui al procedimento n. 2601/2014, in cui si contestava il deposito incontrollato dei fanghi fino a dicembre 2014; per cui, delle due l’una: i fanghi erano depositati in modo incontrollato, oppure erano smaltiti illecitamente.

2.2.4. Inoltre, la sentenza è affetta da un evidente travisamento della prova “per invenzione”, laddove rinvia alla deposizione resa in data il 26/01/2022 dal “procuratore” della società: secondo il ricorrente, verosimilmente il riferimento è alla deposizione resa dal teste geom. D.D. alla data del 26/10/2022, ma in altro procedimento, il n. 2187/2017, mai riunito al presente.

2.3. Con il terzo motivo, lamenta violazione di legge e inosservanza di norme processuali stabiliti a pena di nullità, in riferimento al D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 2, 22, 59, 60 e 25-undecies; mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 125 c.p.p..

Evidenzia il ricorrente come venga indicata in rubrica come data di accertamento del reato il (Omissis), e che lo stesso consulente tecnico B.B. prende in considerazione il periodo che va dal 2011 al 2016.

Il Tribunale a pag. 5 della motivazione parla di commissione dell’illecito per un “lasso di tempo significativo”.

Tuttavia, l’art. 25-undecies è stato introdotto dal D.Lgs. n. 121 del 2011, art. 2, entrato in vigore il 16 agosto 2011.

Pertanto, erroneamente è stato contestato tutto l’anno 2011 quando, fino al 16 agosto, illecito amministrativo del reato non esisteva.

Inoltre, il primo atto interruttivo nella prescrizione dell’illecito amministrativo è intervenuto con il decreto di citazione a giudizio del 16 agosto 2017. Conseguentemente, le condotte almeno fino al 16 agosto 2012 devono ritenersi prescritte e non poteva procedersi a contestazione per decadenza ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 60.

2.4. Con il quarto motivo, lamenta violazione di legge e inosservanza di norme processuali stabiliti a pena di nullità, in riferimento al D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 6, 11, 12, e 25-undecies, nonchè vizio di motivazione.

2.4.1. In primo luogo, il Tribunale ha applicato la sanzione pecuniaria di Euro 77.400,00, calcolata nella misura di Euro 387 per quota per un numero di quote pari a 200.

La società aveva, tuttavia (post factum), adottato ed efficacemente attuato il modello di organizzazione e gestione di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 6, in virtù del quale avrebbe avuto diritto alla riduzione della sanzione pecuniaria irrogata ai sensi dell’art. 12 del suddetto decreto.

Il Tribunale ha, erroneamente, ritenuto tale modello inadeguato sulla base di una serie di valutazioni (quali la genericità delle previsioni, la mancanza di un organo di vigilanza tecnico, la mancanza di comunicazione “dal basso”, la mancata indicazione di quale avrebbe dovuto essere l’attività di vigilanza) del tutto smentite dal tenore letterale del modello (v. pagg. 18-22 del ricorso).

Erroneamente non è stata applicata l’attenuante di cui al Decreto n. 231 del 2001, art. 12, comma 2.

2.4.2. In secondo luogo, andava applicata anche l’attenuante di cui al Decreto n. 231 del 2001, art. 12, comma 1 (nel ricorso è scritto “art. 2”, ma si tratta di un ovvio refuso), attesa l’inesistenza del danno. Pertanto, ai sensi dell’art. 11, comma 3, l’importo della quota avrebbe dovuto essere di Euro 103,00, e non 200.

2.4.3. Lamenta, infine, che il giudice avrebbe erroneamente indicato i limiti di pena, posto che il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-undecies, comma 2, lett. b), n. 1), prevede la sanzione pecuniaria fino a 250 quote. Essa è stata quindi applicata in misura prossima al massimo edittale e non, come scrive il giudice, “con un lieve scostamento dal minimo edittale”.

3. In data 6/11/2023, L’Avv. Petternella faceva pervenire motivi nuovi e aggiunti, con i quali, sostanzialmente, insisteva per l’accoglimento dei motivi già proposti.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

2. Il primo motivo è infondato.

Il Collegio premette che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte (Sez. 4, n. 5415 del 25/11/1999, dep. 2000, Mantello, Rv. 216464; Sez. 6, n. 437 del 16/09/2004, dep. 2005, Verdiani, Rv. 230858 – 01; Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258920 01; Sez. 1, n. 30141 del 05/04/2019, Poltrone, Rv. 276602 – 01; Sez. 5, n. 16993 del 02/03/2020, Latini, Rv. 279090 – 01), qualora il fatto ascritto all’imputato sia contestato con chiarezza, l’erronea indicazione della norma violata si risolve in un mero errore materiale, atteso che, ai fini della contestazione dell’accusa, ciò che rileva non è l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati, bensì la compiuta descrizione del fatto.

Tale è la situazione verificatasi nel caso concreto.

Ed infatti, è senz’altro vero che il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 2, non è incluso nel catalogo dei reati presupposto, ma lo è il comma 1 (al comma 2, lett. b, n. 1), parimenti contestato. Che, nel caso posto all’esame di questa Corte, il Tribunale abbia ritenuto la sussistenza del solo reato presupposto di cui al comma 1 della norma incriminatrice ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria per l’illecito amministrativo da reato, emerge sia dalla condotta contestata (che parla solo di “smaltimento illecito” di fanghi di depurazione), sia dalla circostanza che, nella determinazione del trattamento sanzionatorio, il giudice non abbia operato alcun aumento, nè per concorso formale di reati nè per continuazione.

E’ quindi evidente che l’indicazione – nel capo di imputazione – di un reato presupposto non incluso nel catalogo 231 sia frutto di un mero errore grafico da parte dell’Ufficio requirente, da correlarsi verosimilmente alla contemporanea contestazione dei reati di cui ai Capi a) e c), contestati rispettivamente a E.E. e A.A. (definiti mediante oblazione e pertanto neppure riportati in sentenza), in cui le violazioni erano entrambe contestate.

La stessa sentenza, a pag. 2, nell’inquadrare giuridicamente la disciplina dei fanghi di depurazione, fa un generico riferimento al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256 (senza distinguere tra comma 1 e 2), mentre a pag. 6 (alla fine del par. 3), esplicitamente attribuisce al (Omissis) e allo E.E. esclusivamente la condotta di cui all’art. 256, comma 1, del Testo Unico Ambientale (TUA), costituente il reato presupposto dell’illecito amministrativo.

Sempre a pag. 6, all’inizio del par. 4, dedicato alla responsabilità dell’ente, la sentenza precisa che “è indubbio che la contravvenzione D.Lgs. n. 152 del 2006, ex art. 256, comma 1, fu commessa nell’interesse e quindi a vantaggio della società”, con ciò dando conto, in modo esplicito, della circostanza che, indipendentemente dalla contestazione, l’unica violazione addebitabile alla società quale reato presupposto fosse quella inclusa nel “catalogo 231”.

2. Il secondo motivo, che si articola in quattro diversi “sotto-motivi”, è inammissibile.

2.1. Il primo profilo di censura è inammissibile per genericità.

Come già esaustivamente chiarito dalla sentenza impugnata, le conclusioni cui è pervenuto il consulente tecnico non sono mere illazioni o calcoli teorici, ma ricostruzioni di flussi stimati (c.d. “bilancio di massa”) sulla base dei dati progettuali, dei provvedimenti autorizzativi e dei documenti acquisiti in situ dalla polizia giudiziaria (v. pag. 3: “il consulente, premesso che risultano non funzionanti il riscaldamento del digestore, il gasometro, la torcia e non vi è un sistema di produzione di energia, ha evidenziato che dal 2011 al 2014 vi è stata una progressiva e notevole riduzione di volumi dei fanghi conferiti; che nel 2015 i volumi hanno ripreso a risalire per poi calare nuovamente nel 2016. A tale conclusione il consulente del PM è giunto esaminando i dati relativi a flussi interni dei fanghi attraverso le varie fasi, relativi ai fanghi smaltiti dal 2009 al 2016, ai tempi di ritenzione parziali e totali delle fasi dell’impianto, ai dati sulle portate in uscita dal 2009 al 2016, ai registri di Tari per scarico dei rifiuti dal 13 luglio 2015 al 20 dicembre 2016, ad esso consulente tecnico forniti dall’ARPA, dai Carabinieri del Corpo forestale e dalla stessa ditta (Omissis). Il consulente ha proceduto ad affrontare i dati forniti dall’ARPA e di dati progettuali relativi alla produzione di fanghi (prendendo altresì in considerazione il cattivo funzionamento del digestore, con conseguente aumento dei volumi dei fanghi prodotti) e successivamente ha esaminato i dati risultanti dai registri di carico e scarico. Ha precisato… (omissis)… che i dati progettuali e quelli forniti da arpa sono in buona sostanza coincidenti (avendo cura di calcolare l’aumento di volume dei fanghi per effetto del malfunzionamento cattivo riscaldamento – nel digestore)”.

Altrettanto chiaramente, a pag. 5, la sentenza chiarisce che “in alcun modo è stata contestata la veridicità del patrimonio conoscitivo utilizzato dal consulente, vale a dire i dati forniti da ARPAM e i c.d. “dati di progetto”” e che “le considerazioni del consulente della difesa si risolvono, in difetto di specifiche censure al modello scientifico e di settore che ha orientato l’ausiliario del P.M. nell’espletamento dell’incarico conferitogli – in un mero “dissenso diagnostico””.

In sede di valutazione della prova, il giudice ritiene attendibili i risultati cui è pervenuto il consulente della parte pubblica e ritiene del pari sussistente il reato presupposto contestato, sulla base della concorrenza di due elementi di prova tra loro concordanti, costituiti dal quantitativo di fanghi prodotti, di gran lunga superiori a quelli emergenti dai registri di carico e scarico dei rifiuti e dai formulari di identificazione dei rifiuti, nonchè dalla mancanza di documentazione comprovante il corretto smaltimento dei fanghi, elementi da cui, con procedimento induttivo, evince lo smaltimento abusivo di parte dei fanghi prodotti.

In ordine ai criteri di valutazione degli indizi, la Corte ha, anche di recente (Sez. 3, n. 19499 del 19/04/2023, Ceci, n. m.), ha sottolineato come la “prova logica” richieda la valutazione da parte del giudice di una serie di elementi di fatto, che sarà il frutto di una sintesi, quanto meno possibile “intuitiva”, degli indici stessi, in esito a un processo di tipo induttivo, che si traduce in un sistema di inferenza probabilistica della verità processuale.

Lo schema logico della induzione/deduzione consiste, in particolare, nell’analizzare la pluralità dei fatti concreti per ricavarne una regola generale – soggetta al vaglio costante dell’esperienza – da applicare (stavolta con metodo deduttivo) al caso particolare.

Tale processo logico è sintetizzato dall’art. 192 c.p.p., comma 2, laddove si stabilisce che “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”.

Nella valutazione degli indizi il giudice potrà far ricorso in chiave ausiliaria a “fatti notori” e “massime di comune esperienza” (Sez. 5, n. 602, del 14/11/2013, dep. 2014, Ungureanu, Rv. 258677 – 01), che si differenziano dalla mera congettura perchè la valutazione è formulata sulla scorta dell’id quod plerumque accidit come risultato di una verifica empirica dell’elemento preso in considerazione (Sez. VI, 07/07/2009, n. 27862, in proc. De Noia, Rv. 244439 – 01).

Inoltre, il metodo induttivo richiede la lettura dapprima unitaria di ogni singolo elemento di prova, e quindi e quindi una valutazione complessiva dell’intero compendio probatorio “in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo” (Sez. 2, 19/09/2013, n. 42482, Kuzmanovic, Rv. 256967 01).

In sostanza, la valutazione della prova indiziaria è “bifasica”, essendo in prima battuta il giudice tenuto a verificare il livello di “gravità e precisione” di ciascun indizio, isolatamente considerato e, in seconda battuta, ad esaminare unitariamente tutte le circostanze emerse per valutarne la “concordanza” (così anche Sez. U. n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678).

Il Collegio evidenzia altresì come la prova logica del fatto non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica (nei termini dianzi esposti) che giustifica e sostanzia il principio del cosiddetto libero convincimento del giudice (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191230).

Nel caso di specie, il giudice del merito ha ritenuto, con motivazione non manifestamente illogica, che la contemporanea presenza dei predetti indizi soddisfacesse i requisiti previsti dall’art. 192 c.p.p., soprattutto ove non smentiti da una plausibile versione alternativa fornita dall’imputato (v. sottoparagrafo che segue, sul punto).

Il profilo di censura, che non si confronta con la motivazione della sentenza, è quindi inammissibile per genericità.

2.2. Quanto all’elaborato tecnico del CTP C.C., secondo cui peserebbe – sulla relazione del Dott. B.B. – la mancata distinzione tra fango “tal quale” e “sostanza secca”, il Collegio evidenzia come anche su tale aspetto la sentenza impugnata (che qualifica come “apodittica” la relativa affermazione) spenda non poche parole a confutazione, evidenziando (pagg. 4-5) che pur non essendo specificato nella relazione di consulenza se si parli di fanghi “tal quali” o “fanghi secchi”, appare evidente come il riferimento sia da effettuarsi ai secondi (“in riferimento ai volumi di fango, senz’altra specificazione, nelle predette fasi dell’ispessitore, del digestore e della disidratazione evidenziano che il fango considerato sia quello espresso in termini di sostanza secca e non già di fango tal quale, che precede il trattamento nell’impianto di depurazione. E’ il fango secco che, a tutta evidenza, risulta dalla fase di disidratazione e che, all’evidenza, va conferito in discarica” (segue citazione di parte della deposizione del teste F.F. del Corpo Forestale dello Stato).

Anche tale profilo di censura, che si confronta con la relazione di consulenza ma non con la motivazione della sentenza, è inammissibile per genericità.

Del tutto inammissibile è poi la censura secondo cui sarebbe stato più conveniente, per l’impresa, attivare il c.d. “by-pass” e non produrre proprio i fanghi di depurazione, risolvendosi in una mera contestazione ipotetica e non in una vera e propria censura (in proposito il Collegio evidenzia che, in ogni caso, a pag. 4 della sentenza si evidenzia come il CT B.B. abbia rappresentato che il bypass veniva attivato in caso di guasto delle pompe di sollevamento ovvero di altre problematiche – e quindi non abitualmente – e sanzionato come scarico di acque reflue urbane non autorizzato).

2.3. Il profilo di censura di cui al punto 2.2.3 delle premesse in fatto (contraddizione tra la contestazione relativo al presente procedimento e quella di cui al procedimento n. 2601/2014) è inammissibile, in quanto, pur ventilandosi un ipotetico contrasto tra giudicati, il motivo non viene assolutamente sviluppato, difettando della benchè minima specificità.

2.4. Il quarto profilo di censura, in cui si lamenta il travisamento della prova, è inammissibile.

Il Collegio premette che, secondo Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, n. m. sul punto, il travisamento della prova sussiste quando emerge che la sua lettura sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato).

Il ricorrente censura, nel caso di specie, un travisamento “per invenzione”, nella parte in cui la sentenza impugnata rinvia alla (presunta) deposizione resa dal teste geom. D.D.in data 26/10/2022 in altro procedimento.

La censura è doppiamente inammissibile.

In primo luogo, secondo il costante orientamento della Corte, il travisamento della prova può avere rilievo solo quando “l’errore sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio” (cfr. Sez. 5, n. 8188 del 4/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406).

La presenza di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nel provvedimento impugnato, laddove le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, pertanto, non può comportare l’annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all’esito di una verifica sulla completezza e sulla globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227).

In altre parole (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085 – 01), il motivo di ricorso con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova deve indicare, pena l’inammissibilità, le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

Deduzione mancante nel caso di specie.

In secondo luogo, la censura non supera, in concreto, la c.d. “prova di resistenza”.

Ed infatti, quando con il ricorso per cassazione si contesti l’utilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento sulla decisione; si tratta, per l’appunto, della “prova di resistenza”, essendo necessario valutare se le altre risultanze processuali, in caso di espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 2, n. 29642 del 30/05/2019, Tanè, Rv. 276978; Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Rv. 259452).

Nel caso in esame, da un lato il ricorrente non ha indicato in che modo il venir meno di tale elemento di prova avrebbe avuto incidenza determinante sul giudizio, per ciò solo presentandosi come inammissibile.

In secondo luogo, il Tribunale di Campobasso, a pagina 3 della sentenza impugnata, cita quasi incidentalmente la deposizione di un, non meglio precisato, “procuratore della società” che sarebbe stato audito il 26/01/2022, solo per rafforzare la motivazione fondata sulla relazione di consulenza, sulla documentazione acquisita, nonchè sulle “ripetute interlocuzioni tra la società e il comune di Campobasso (in ordine alla necessità di interventi manutentivi e/o comunque tali da assicurare il ripristino della funzionalità dell’impianto)” e sulle “interlocuzioni tra la società e ARPA, la quale ha segnalato una serie di criticità, legate al non corretto funzionamento di talune parti dell’impianto”, tanto da non ribadire tale elemento di prova nella valutazione complessiva del quadro indiziario operato ai sensi dell’art. 192 del codice di rito.

Il profilo di censura non supera, pertanto, il processo di “eliminazione mentale” della prova censurata, essendo il giudizio di colpevolezza fondato sul complesso delle altre risultanze probatorie, il cui spessore probatorio non è affatto scalfito dall’eliminazione della prova asseritamente travisata.

L’applicazione del suddetto principio comporta l’inammissibilità del motivo di ricorso, posto che la prova di cui i ricorrenti lamentano l’inutilizzabilità non ha avuto incidenza determinante nel giudizio di colpevolezza.

3. Il terzo motivo è inammissibile per genericità.

La censura è infatti genericamente riferita ad un accertamento del 2016 e non contiene un riferimento preciso all’arco temporale di commissione del reato.

La sentenza, del resto, a pagina 8 (par. 5), precisa, sul punto specifico, che “lo smaltimento illecito dei rifiuti si è protratto per un lasso di tempo significativo, seppur non precisato in imputazione quanto al dies a quo”.

Il ricorso non si confronta con il provvedimento impugnato, limitandosi a generiche censure riferite alla consulenza del Dott. B.B., in tal modo destinandosi all’inammissibilità.

Per gli stessi motivi deve ritenersi generica la doglianza relativa alla asserita decadenza dalla contestazione ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 60, per i fatti commessi almeno fino al (Omissis) (essendo stato contestato l’illecito amministrativo in data 16 agosto 2017).

Preliminarmente, il Collegio evidenzia come il ricorrente utilizzi i termini “prescrizione” e “decadenza” in modo promiscuo (v. pag. 14 del ricorso, in fine), laddove i due istituti sono disciplinati in modo totalmente differente dal D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 22 e 59 e 60. Tuttavia, i principi stabiliti in tema di prescrizione del reato presupposto proiettano la loro efficacia sull’istituto della decadenza della contestazione.

Si evidenzia in proposito che, secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente della Corte (v. da ultimo Sez. 3, n. 16158 del 26/02/2019, Masoni, Rv. 275403 – 01) “il reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, ha, di regola, natura di reato istantaneo e solo eventualmente abituale, in quanto si perfeziona nel momento in cui si realizza la singola condotta tipica, essendo sufficiente un’unica attività ad integrare la fattispecie incriminatrice, salvo il caso in cui, stante la ripetitività della condotta, si configuri quale reato eventualmente abituale (Sez. 3, n. 13456 del 30/11/2006, dep. 02/04/2007, Gritti e altro, Rv. 236326; Sez.3, n 21655 del 13/04/2010, Rv 47605, conf., anche con riferimento alla disciplina emergenziale, Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino, Rv. 257631, non massimata sul punto; nonchè, in motivazione, Sez.3, n. 30134 del 05/04/2017,Rv.270255 e Sez.3, n. 48318 del 11/10/2016, Rv.268566)”.

In questo caso, alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge e il decorso del termine prescrizionale partirà dal giorno di cessazione dell’abitualità (v. Sez. 3, 5742 del 20/10/2016, dep. 2017, Sassetti, Rv. 269758, in materia di delitto di cui all’art. 452-bis c.p.).

Nella specie, trattandosi di plurime condotte in un ampio arco temporale, il reato si configurava, per le sue concrete modalità di manifestazione, come abituale ed assumeva struttura unitaria, concretizzandosi nella ripetizione di condotte analoghe, distinte tra loro ma sorrette da un unico ed unitario elemento soggettivo, unitariamente lesive del bene giuridico tutelato e caratterizzate da una ripetizione “seriale” della condotta di miscelazione dei fanghi con le acque di processo.

La riconduzione del fatto nell’alveo del reato abituale determina evidenti conseguenze in tema di prescrizione dello stesso.

Ed infatti, questa Corte (v. Sez. 5, Sentenza n. 9956 del 11/01/2018, Ballus, Rv. 272374 01) ha precisato che ai fini della prescrizione del reato abituale (nel caso di specie, il delitto di “stalking”), il termine decorre dal compimento dell’ultimo atto antigiuridico, coincidendo il momento della consumazione delittuosa con la cessazione dell’abitualità.

In materia di reati ambientali, poi, questa Corte (Sez. 3, n. 16036 del 28/02/2019, Zoccoli, Rv. 275395 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 41583 del 10/09/2021, Rizzuto, Rv. 282458 – 02, Sez. 3, n. 42631 del 15/09/2021, Banti, Rv. 282632 – 01, in tema di delitto di cui all’art. 452-quaterdecies), ha precisato che il reato abituale si consuma, pacificamente, con la cessazione dell’attività organizzata finalizzata al traffico illecito.

Trattandosi – nel caso in esame – di una condotta abituale, non si è pertanto verificata alcuna decadenza nella contestazione dell’illecito amministrativo da reato, iniziando a decorrere il termine di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 60 dal 22/12/2016.

4. Il quarto motivo, che si compone in realtà di diversi sotto-motivi, tutti attinenti al trattamento sanzionatorio, è in parte infondato e in parte inammissibile.

Si premette che il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-undecies, comma 2, lett. b), n. 1), prevede, come reato presupposto, il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a), comminando una sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote.

Ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 10, la sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a 100 nè superiore a 1.000. L’importo di una quota va da un minimo di Euro 258,00 ad un massimo di Euro 1.549,00.

Ai sensi dell’art. 11, nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice determina il numero delle quote tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonchè dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti.

4.1. Ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 6 tra le condizioni di esclusione della responsabilità dell’ente, rectius della colpa di organizzazione dello stesso, vi sono l’avere (comma 1, lett. a) adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, nonchè aver affidato (lettera b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo.

Ove invece, post factum, sia stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, ai sensi dell’art. 12, comma 2, lett. b) del decreto, è prevista una diminuzione della pena da un terzo alla metà.

A tal proposito, il Collegio osserva come la Corte abbia già in precedenti occasioni (v. Sez. 4, n. 38025 del 15/09/2022, Petrol Lavori Spa n. m.) chiarito che la mera “adozione” del MOG non è sufficiente a far scattare l’attenuante; ed invero, come specificamente richiesto dalla lettera della norma, è necessario che tale modello sia “reso operativo” e che sia anche “idoneo” a prevenire la commissione di reati della stessa specie.

Non sussiste, in altre parole, alcun automatismo tra l’adozione del modello e la concessione dell’attenuante, che è invece subordinata, come evidenziato anche in dottrina, ad un giudizio di natura fattuale, essendo il giudice tenuto a verificare se la lettera della norma sia stata rispettata specificatamente e nel suo complesso.

Verifica, in fatto, che il ricorrente sostanzialmente chiede alla Corte di svolgere in luogo del giudice di merito, circostanza, di per sè, bastevole per poter valutare il motivo di ricorso in termini di inammissibilità.

A ciò il Collegio aggiunge che l’unica censura teoricamente praticabile in sede di legittimità è quella del vizio di motivazione (censura proposta dal ricorrente), ma in proposito la consolidata giurisprudenza della Corte (v. Sez. F, n. 23757 del 06/08/2020, De Luca, n. m.) è nel senso che “il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (ex plurimis, cfr. Sez. 4, n. 31224 del 16/06/2016).

Ancora, la giurisprudenza ha affermato che (Sez. 4, n. 29610 del 14/10/2020, Nicastro, n. m.) il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento operato dal giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile:

a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;

b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.

Pertanto, l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè come nel caso in esame- siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (v. Sez. 3, n. 35397 del 20/6/2007; Sez. Unite n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).

Nel caso di specie, la motivazione addotta dal Tribunale per ritenere insussistenti i presupposti della concessione dell’attenuante in parola (pagg. 7-8) non supera certamente i confini della “evidente illogicità”, evidenziando la sentenza in modo non manifestamente illogico il contenuto del c.d. “protocollo ambientale” del 3 agosto 2016, di cui sottolinea la assoluta genericità della prima parte, la mancata individuazione di meccanismi concretamente utili a scongiurare la reiterazione dei reati, l’assenza di un efficace sistema di comunicazione dal basso, la mancata nomina, almeno fino al CDA del 27/01/2017, dell’ODV, neppure contemplato nell’organigramma “funzionale” – e non quindi in quello aziendale – allegato al protocollo.

Il ricorso, che censura la motivazione come erronea, è inammissibile (cfr. Sez. 5, n. 8188 del 4/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 6, n. 12501 del 27/01/2015, Di Stefano, Rv. 262908; Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013, Basile, Rv. 258153), non potendo questa Corte fare altro che prendere atto che l’iter argomentativo svolto dal giudice di merito appare comunque completo e che nel caso di specie sono del tutto assenti vizi logici ictu ocuii percepibili.

4.2. Manifestamente infondato è poi il profilo relativo alla attenuante di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 1, lett. b).

Esso, infatti, non può che trovare applicazione a quei reati che presuppongono un danno patrimoniale e non anche a quelli, come nel caso in esame, che si esauriscono in violazioni “formali” e di pericolo astratto, in cui vengono punite determinate condotte indipendentemente e a prescindere dalla produzione di un danno, patrimoniale e non patrimoniale.

4.3. L’ultimo profilo è infondato.

Sicuramente la sentenza impugnata contiene una imprecisione, laddove considera l’irrogazione della pena di 200 quote, un “lieve scostamento dal minimo edittale”, laddove, al contrario, la pena pecuniaria irrogata è pari al doppio del minimo edittale e, semmai, più vicina al massimo (250 quote).

Tuttavia, la sentenza chiarisce (pag. 8) che lo scostamento è operato rispetto al mimino edittale pari a 100 quote (dimostrando quindi di avere ben chiara l’entità dello scostamento), e giustifica tale scostamento alla luce del lungo lasso di tempo di commissione del reato presupposto, così come giustifica la quantificazione di ogni singola quota alla luce dei quantitativi di fanghi illecitamente smaltiti.

Questa Corte ha precisato (Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019, Radin, Rv. 278531 – 03) che in tema di responsabilità degli enti, per quantificare la sanzione da irrogare alla persona giuridica, il giudice penale è tenuto ad applicare i medesimi criteri utilizzati per le pene disposte nei confronti delle persone fisiche e ad esplicitare il percorso logico condotto per giungere alla sanzione finale, con motivazione che diventa tanto più stringente quanto più egli intenda discostarsi dal minimo edittale.

Nel caso concreto, al di là dell’utilizzo improprio dell’aggettivo “lieve”, la sentenza motiva in modo non manifestamente illogico sulla modalità di irrogazione della sanzione pecuniaria e dà sufficiente conto delle ragioni che hanno indotto il giudice ad un trattamento sanzionatorio piuttosto severo.

5. I motivi nuovi depositati dalla difesa, essendo meramente reiterativi di motivi ritenuti inammissibili o infondati, ne seguono le sorti.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2023

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