Nella valutazione degli elementi presuntivi il giudice deve utilizzare il parametro della “convergenza del molteplice”
IL PRINCIPIO DI DIRITTO ENUNCIATO DALLA CORTE
Il Giudice deve esaminare e valutare gli indizi tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova.
IL PASSO SALIENTE
[…] Dal modello di prova per presunzioni configurato dalla legge, risulta che il giudice deve seguire un procedimento logico che si articola in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, presentino cioè una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Cass. n. 19894/2005). In questo secondo momento valutativo, perciò, gli indizi devono essere presi in esame e valutati dal giudice tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. n. 3703/2012). […]
L’ORDINANZA
Cassazione civile, Sez. II, Ordinanza del 21/03/2022, n. 9054
(Presidente Dott. Manna – Relatore Dott. Criscuolo)
(Omissis)
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Torino con la sentenza n. 4212/2014, i accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla Huhtamaki S.p.A., oggi Bibo Italia S.p.A., nei confronti della Bravo Communications S.r.l., annullava ex art. 1394 c.c., i due contratti di consulenza ed agenzia pubblicitaria, posti a fondamento della richiesta monitoria, rigettando le altre domande avanzate dalle parti.
La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1379 del 4 agosto 2016 ha rigettato l’appello principale proposto dal Bravo Communications e quello incidentale avanzato dalla controparte, condannando la prima al rimborso in favore della seconda dei due terzi delle spese del grado.
Rilevava la Corte d’Appello che i contratti erano stati annullati per effetto del conflitto di interessi esistente tra colui che all’epoca fatti era alla guida della società opponente e la società contraente, che vedeva nella sua compagine societaria, e con una partecipazione rilevante, proprio lo stesso soggetto che aveva concluso i contratti in nome e per conto della Bibo Italia.
I giudici di appello, nell’esaminare l’appello principale della Bravo, osservavano che le censure erano prive di fondamento.
Quanto alla deduzione secondo cui vi sarebbe stata una extrapetizione da parte del Tribunale per avere esteso l’effetto dell’annullamento dei due contratti anche alle cc.dd. “lavorazioni extracontratto”, che pur costituivano oggetto della pretesa monitoria, trattandosi, a detta dell’appellante, di prestazioni frutto di autonomi rapporti contrattuali, sorti per effetto di singoli ordinativi della committente, la sentenza di seconde cure rilevava che dette prestazioni erano sì escluse da quelle dovute in base al rapporto di agenzia, ma trovavano comunque la loro genesi nel contratto denominato di agenzia pubblicitaria, con la conseguenza che l’annullamento di tale contratto era destinato a riverberarsi anche sulle prestazioni in esame.
In relazione alla diversa critica che invece assumeva la mancata verifica di un pregiudizio subito dalla Bibo Italia per effetto della conclusione dei contratti, la sentenza ricordava quali erano i presupposti per ravvisare il conflitto di interessi, secondo la stessa giurisprudenza di legittimità.
Nella specie i contratti furono conclusi dal soggetto apicale della società appellata, che all’epoca cumulava anche la mansione di direttore generale, nel dicembre del 2009 e nel gennaio del 2010, in epoca di poco anteriore alla dismissione di fatto di tali cariche. Infatti, sebbene l’incarico fosse stato formalmente conservato sino ad ottobre del 2010, ed essendo stata conservata la carica di dirigente sino al successivo mese di dicembre, tuttavia a partire da aprile del 2010 aveva fruito di un congedo parentale.
Nello stesso periodo però era titolare di una quota di un quarto del capitale della Bravo, di cui nel 2001 era stato uno dei soci fondatori e della quale era stato amministratore sino al 2002.
Emergeva poi che di fatto aveva continuato ad ingerirsi nell’amministrazione e gestione della Bravo.
Accanto a tale situazione, emergeva poi che la durata dei contratti, fissata in tre anni, accompagnata dalla previsione di un corrispettivo notevolmente superiore a quello di norma praticato da società per analoghi servizi, aveva assicurato alla Bravo un significativo vantaggio economico, e ciò tramite contratti posti in essere allorchè era ragionevole ritenere che il direttore generale della opponente avesse già preordinato la sua fuoriuscita dalla società committente per avere già ricominciato ad occuparsi della gestione della Bravo.
Era altresì disatteso il motivo di appello a mente del quale i contratti in oggetto sarebbero stati convalidati dalla committente in maniera tacita, e precisamente continuando ad avvalersi delle prestazioni della Bravo, sebbene fosse già venuta a conoscenza della situazione di conflitto di interessi in cui versava il suo ex amministratore.
Secondo i giudici di appello, tuttavia, non poteva farsi richiamo alla figura della convalida tacita. In primo luogo, la convalida avrebbe potuto essere compiuta solo da parte di colui che aveva il potere di rappresentanza della società, e nella specie emergeva che colui che era anche socio della Bravo si era formalmente dimesso, perdendo il relativo potere di rappresentanza, solo nel mese di ottobre del 2010, laddove la quasi totalità delle condotte che dovrebbero valere come convalida tacita risultavano poste in essere in epoca quasi coeva a quella delle dimissioni. Non era causale che già nel mese di novembre la società opponente si fosse lamentata della eccessività del prezzi praticati dalla controparte.
Inoltre, la fruizione delle prestazioni tra (OMISSIS) si giustificava, lungi che per la volontà di convalidare il contratto, per la necessità di dover fruire di prestazioni necessarie per lo svolgimento dell’attività societaria, e senza che vi fosse la possibilità di provvedere ad un’immediata sostituzione.
Una volta quindi confermata la pronuncia di annullamento dei contratti, l’effetto retroattivo della pronuncia imponeva di esaminare le reciproche domande restitutorie.
Secondo l’appellante principale la somma che le era stata riconosciuta quale compenso per le attività già svolte era esigua, mentre la controparte riteneva fosse necessario disporre la restituzione di tutto quanto già versato.
I giudici di appello, ribadita la differenza tra azione di arricchimento senza causa e di ripetizione dell’indebito, qui applicabile, escludevano che l’equivalente pecuniario spettante alla parte che avesse già eseguito delle prestazioni sulla base di un contratto venuto meno, nella specie perchè annullato, potesse farsi coincidere con il compenso dovuto in base al contratto, competendo solo il rimborso dei costi effettivamente sostenuti per rendere le prestazioni.
Nella specie la somma era stata determinata in via equitativa dal giudice e l’appellante non aveva dimostrato l’erroneità della quantificazione operata dal Tribunale, così che l’appello andava disatteso. Analogamente era da rigettare l’appello incidentale in quanto la Bibo non aveva dimostrato che i costi fossero stati inferiori rispetto alla somma accordata alla controparte.
Era infine disatteso il motivo di appello incidentale con il quale si sosteneva che spettasse anche il diritto al risarcimento del danno. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Bravo Communications S.r.l. sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.
La Bibo Italia S.p.A. ha resistito con controricorso a sua volta illustrato da memorie 2. Il primo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle norme codicistiche in materia di annullamento dei contratti per conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato.
Si lamenta che i giudici di merito abbiano incentrato la loro decisione sull’applicazione dell’art. 1394 c.c. e si sostiene che invece occorreva far riferimento alla disciplina di cui agli artt. 2381 e 2391 c.c., che concernono i poteri dell’amministratore delegato, quale era nella fattispecie il Dott. M.L., anche socio della società ricorrente all’epoca dei fatti.
Nella specie non vi era alcun conflitto tra il detto M. e la Bibo, il che esclude che possa farsi applicazione dell’art. 1394 c.c.. L’art. 2391 c.c., invece impone, per evidenti ragioni di trasparenza, che l’amministratore debba segnalare alla società il proprio conflitto di interessi.
Nella specie si verteva in una fattispecie di amministratore delegato, che giustificava quindi la necessità che questi, oltre che dare notizia del potenziale conflitto, dovesse astenersi dal porre in essere l’operazione, investendo il competente organo collegiale.
Solo nel caso di amministratore unico, non essendovi separazione tra potere deliberativo e potere rappresentativo, possono venire in gioco le previsioni di cui agli artt. 1394 e 1395 c.c..
Poichè il Dott. M. era amministratore delegato di una società dotata di consiglio di amministrazione e di collegio sindacale, non poteva nella specie dubitarsi che questi ultimi fossero a conoscenza dell’operato del proprio amministratore, atteso l’obbligo incombente sull’amministratore di periodicamente riferire al CDA. Ne consegue che si palesa del tutto tardiva la deduzione circa l’esistenza di un conflitto di interessi, la cui conoscenza doveva reputarsi ben nota alla società.
Il motivo è manifestamente infondato.
La giurisprudenza di questa Corte, con il conforto della assolutamente prevalente dottrina, ha reiteratamente affermato che nella fattispecie prevista dall’art. 1394 c.c., il conflitto di interessi si manifesta al momento dell’esercizio del potere rappresentativo, mentre nel caso previsto dagli artt. 2373 e 2391 c.c., il conflitto di interessi (rispettivamente, in sede di assemblea e di consiglio di amministrazione) si manifesta al momento dell’esercizio del potere deliberativo, di modo che, in assenza di una previa deliberazione, la disciplina del conflitto deve essere ricondotta a quella dettata dall’art. 1394 c.c., anzichè alle norme degli artt. 2373 e 2391 c.c. (Cass. n. 23089/2013).
Ne consegue che, ove sia mancato del tutto, come nella specie, il riferimento al momento deliberativo nell’ambito delle determinazioni di un organo collegiale, la riconduzione del conflitto di interessi alla disciplina dettata dall’art. 1394 c.c., è l’unica possibile.
Si veda altresì Cass. n. 3501/2013, che ha ribadito che in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell’art. 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c. (conf., in tema di negozio concluso in conflitto di interessi dall’amministratore unico di società a responsabilità limitata, Cass. n. 27783/2008, non senza rilevare che per le società a responsabilità limitata, in relazione alla modifica del diritto societario operata nel 2003 ed operante a far data dal 1 gennaio 2004, la prevalenza dell’art. 1394 c.c., trova la sua testuale conferma nella novellata previsione di cui all’art. 2475 ter c.c.).
Nè può incidere sulla soluzione del problema, la circostanza che nella fattispecie si verte in un’ipotesi di amministratore delegato, anzichè di amministratore unico, avendo questa Corte affermato il principio per cui, in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell’art. 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c.. Al riguardo, costituendo il divieto di agire in conflitto di interessi con la società rappresentata un limite derivante da una norma di legge, la sua rilevanza esterna non è subordinata ai presupposti stabiliti dell’art. 2384 c.c., comma 2, il cui ambito di applicazione è riferito alle limitazioni del potere di rappresentanza derivanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, che abbiano, cioè, la propria fonte (non nella legge, ma) nell’autonomia privata (Cass. n. 1525/2006; Cass. n. 1089/1992; conf. Cass. n. 18792/2005, che ritiene irrilevante, in assenza di una deliberazione del consiglio di amministrazione con la determinazione del contenuto del contratto, che il contratto se sia stato concluso dall’amministratore unico o dall’amministratore munito di potere di rappresentanza, delegato o meno che sia, e ciò in quanto l’art. 2391 c.c., presuppone una preventiva deliberazione, in presenza della quale, l’annullamento del contratto è possibile solo se sia prima annullata la deliberazione che ne ha deciso la conclusione, previa dimostrazione della malafede del terzo).
Risulta quindi del tutto priva di fondamento la tesi posta a sostegno del motivo in esame, avendo la Corte d’Appello correttamente tratto la disciplina della fattispecie dalle norme codicistiche in tema di conflitto di interessi del rappresentante con il rappresentato, essendo peraltro frutto di una mera illazione, senza alcuna prova offerta da parte della ricorrente, che della situazione di potenziale conflitto di interesse la società committente fosse già stata resa edotta, sol perchè la legge prevede che l’amministratore delegato debba periodicamente riferire al CDA sui fatti relativi alla propria gestione.
3. Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle disposizioni in tema di presunzioni semplici, dalle quali far discendere la declaratoria di annullamento dei contratti per conflitto di interesse tra rappresentato e rappresentante.
Si assume che per pervenire all’annullamento del contratto è necessario che il confitto di interessi sia in concreto idoneo a determinare un pregiudizio per il rappresentato, occorrendo anche salvaguardare gli eventuali diritti dei terzi di buona fede.
Nella vicenda il Dott. M. era solo socio della società ricorrente alle data di conclusione dei contratti, ma la sentenza impugnata non ha chiarito quale sia stato il vantaggio economico personalmente ritratto dall’ex amministratore della Bibo.
La sentenza gravata ha posto a fondamento della propria decisione degli elementi presuntivi privi dei caratteri imposti dalla legge per assurgere al livello di prova dei fatti ignoti.
Il motivo deve del pari essere disatteso.
I giudici di appello hanno correttamente identificato la nozione di conflitto di interesse rilevante ai fini dell’art. 1394 c.c., sottolineando come la norma abbia riguardo alla potenzialità del pregiudizio per la parte rappresentata, non essendo altresì necessario provare che l’atto sia poi effettivamente vantaggioso o svantaggiosi per la parte.
In tal senso è stato affermato che il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato costituisce causa di annullabilità del contratto concluso dal rappresentante quando quest’ultimo, anzichè tendere alla tutela degli interessi del rappresentato, persegua interessi propri, suoi personali, o anche di terzi, inconciliabili con quelli del rappresentato, di modo che all’utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante, per sè medesimo o per il terzo, segua o possa seguire il danno del rappresentato (Cass. n. 3836 del 25/06/1985; Cass. n. 15981/2007; Cass. n. 18792/2005; Cass. n. 4505/2000).
In particolare i vincoli di solidarietà e la comunanza d’interessi fra rappresentante e terzo sono indizi che consentono al giudice del merito di ritenere, secondo l'”id quod plerumque accidit” ed in concorso con altri elementi (come l’inesistenza di qualsiasi interesse al contratto ovvero la sussistenza di un pregiudizio non correlato al alcun vantaggio), sia il proposito del rappresentante di favorire il terzo, sia la conoscenza effettiva o quanto meno la conoscibilità di tale situazione da parte del terzo, occorrendo altresì ribadire che l’accertamento dell’esistenza del conflitto che coinvolge un’indagine di fatto riservata al giudice di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità per vizi di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – deve essere, peraltro, condotto sulla base del contenuto e delle modalità dell’operazione, prescindendo da una contestazione di formale contrapposizione di posizioni, che può valere come semplice elemento presuntivo di conflitto (conf. Cass. n. 1214/1972; Cass. n. 3/1962.
E’ stato poi ritenuto che il giudice di merito può argomentare l’esistenza di un tale conflitto e la sua conoscenza o conoscibilità da parte del terzo da elementi indiziari, quali il divario fra il valore di mercato del bene venduto dal rappresentante e il prezzo pagato dall’acquirente e la comunanza di interessi fra rappresentante e terzo (Cass. n. 7698/1996).
Nella specie deve ritenersi che l’accertamento del conflitto di interessi esistente tra la società opponente ed il proprio amministratore sia incensurabile, in quanto logicamente argomentato e tale da evidenziare l’esistenza di un rapporto d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, da dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro (cfr. Cass. n. 2529/2017). Nè coglie nel segno la critica volta a contestare il concreto utilizzo delle presunzioni nella fattispecie occorre ricordare che l’art. 2729 c.c., nel prescrivere che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla “prudenza del giudice” (secondo una formula analoga a quella che si rinviene nell’art. 116 c.p.c., a proposito della valutazione delle prove dirette), impone al giudice di compiere l’inferenza logica dal fatto secondario (fatto noto) al fatto principale (fatto ignoto) sulla base di una regola d’esperienza che egli deve ricavare dal sensus communis, dalla conoscenza dell’uomo medio, dal sapere collettivo della comunità sociale in quel dato momento storico. Grazie alla regola d’esperienza adottata, è possibile per il giudice concludere che l’esistenza del fatto secondario (indizio) deponga, con un grado di probabilità più o meno alto, per l’esistenza del fatto principale. Lo stesso art. 2729 c.c. si cura di precisare come debba manifestarsi la “prudenza” del giudice, stabilendo che il decidente deve ammettere solo presunzioni che siano “gravi, precise e concordanti”; laddove il requisito della “precisione” va riferito al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realtà storica; il requisito della “gravità” va riferito al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere dal fatto noto; mentre il requisito della “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr. Cass. n. 11906/2003), anche se il requisito della “concordanza” deve ritenersi menzionato dalla legge solo per il caso di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (Cass. n. 17574/2009).
Dal modello di prova per presunzioni configurato dalla legge, risulta che il giudice deve seguire un procedimento logico che si articola in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, presentino cioè una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Cass. n. 19894/2005). In questo secondo momento valutativo, perciò, gli indizi devono essere presi in esame e valutati dal giudice tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. n. 3703/2012).
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto – in forza di una regola d’esperienza come conseguenza meramente probabile, secondo un criterio di normalità (Cass. n. 22656/2011); in altre parole, è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù di una inferenza di natura probabilistica), sicchè il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre è da escludere che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Cass. n. 2632/2014).
Essendo la presunzione semplice affidata alla “prudente” valutazione del decidente (art. 2729 c.c.), spetta al giudice di merito valutare la possibilità di fare ricorso a tale tipo di prova, scegliere i fatti noti da porre a base della presunzione e le regole d’esperienza – tra quelle realmente esistenti nel sapere collettivo della società – tramite le quali dedurre il fatto ignoto, valutare la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge; trattandosi di apprezzamento affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, esso è sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 8023/2009, n. 15737/2003, n. 11906/2003; da ultimo, Cass. n. 101/2015).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi precisato che (Cass. S.U. n. 1785/2018) la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare sotto i seguenti aspetti:
aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;
bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacchè dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.
Con riferimento a tale secondo profilo, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B; la precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti; la concordanza esprime un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.
Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta. Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.
In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.
Di contro, la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali). In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti. Terreno che, come le Sezioni Unite, (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito abbia omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria.
A tali principi ha poi dato seguito la successiva giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 18611/2021), essendosi appunto affermato che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. n. 22366/2021).
Nella specie, l’illustrazione dei motivi non è idonea a prospettare a ben vedere la falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, nei termini su indicati, ma si risolve, come detto, solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e talora nella prospettazione di una diversa ricostruzione delle quaestiones facti ripercorse in relazione agli oggetti delle varie circostanze emerse, così che non presentano le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1.
La sentenza gravata ha evidenziato come i due contratti annullati fossero stati conclusi tra la società, all’epoca rappresentata dal M., e la diversa società di cui lo stesso M. era socio fondatore, avendo conservato una partecipazione rilevante ed a fronte di una compagine societaria numericamente esigua.
E’ stato altresì sottolineato come i contratti furono conclusi poco prima che intervenissero le dimissioni del M., dovendosi sottolineare come, sebbene le stesse fossero formalmente intervenute nel mese di ottobre del 2010, già da aprile dello stesso anno questi si era allontanato dalla società, ponendosi in congedo parentale.
Con accertamento in fatto, supportato dalle prove raccolte, è stato altresì sottolineato come, anche durante il periodo in cui era amministratore della controricorrente, aveva continuato di fatto ad occuparsi della gestione della società ricorrente. Inoltre, sono state evidenziate sia la durata del contratto di agenzia pubblicitaria sia l’entità del compenso, ritenuto, anche qui con accertamento in fatto, superiore a quello di norma richiesto da altri operatori del settore per prestazioni di analogo contenuto.
Alla luce di tali elementi, con ragionamento di tipo presuntivo ma tenendo conto di elementi che indubbiamente hanno le caratteristiche imposte dall’art. 2729 c.c., la sentenza ha tratto il convincimento che il conflitto di interessi fosse alla data di conclusione dei contratti, non solo potenziale, ma addirittura attuale, e ciò alla luce del fatto che era imminente (e ragionevolmente prevista se non anche preordinata), la decisione di allontanarsi dalla gestione della società committente, onde assicurare un vantaggio alla Bravo, che avrebbe fruito di una sorta di rendita correlata alla conclusione di contratti di durata triennale e per un corrispettivo sicuramente maggiore di quello che si sarebbe potuto ricavare secondo le regole della concorrenza tra gli operatori del settore.
La sentenza, inoltre, ed in risposta ad una specifica critica reiterata nel motivo di ricorso, ha tratto dalla consistenza della compagine societaria della ricorrente, anche la presunzione che quest’ultima fosse a conoscenza del conflitto di interessi (o che comunque fosse percepibile), e ciò in quanto i suoi vertici dell’epoca non potevano non ignorare che il M. fosse al contempo sia loro consocio che amministratore della società committente, palesandosi quindi del tutto priva di fondamento la pretesa secondo cui sarebbe stato necessario dimostrare la mala fede della ricorrente ai fini dell’annullamento.
4. Il terzo motivo di ricorso deduce la violazione o falsa applicazione delle norme in materia di convalida del negozio giuridico annullabile.
Si deduce che il CDA di Bibo non poteva non essere a conoscenza dell’operato del M. e quindi avrebbe potuto immediatamente agire a tutela del proprio interesse, dovendosi quindi accreditare la condotta esecutiva del contratto come idonea a porre in essere la convalida del contratto.
Il motivo va rigettato.
La premessa erronea da cui muove la deduzione della ricorrente è che, in contrasto con quanto già evidenziato in occasione della disamina del primo motivo, alla fattispecie trovi applicazione il disposto di cui all’art. 2391 c.c..
Inoltre, si ribadisce, e senza che sul punto sia stata offerta prova alcuna, che solo perchè l’amministratore ha un obbligo legale di riferire al CDA della propria gestione, quest’ultimo fosse stato effettivamente informato anche della conclusione dei contratti oggetto di causa.
L’evidente insussistenza delle premesse in fatto ed in diritto da cui muove la critica della ricorrente, conferma la correttezza della decisione di appello che ha escluso che potesse ravvisarsi una convalida da parte della società.
Infatti, oltre a doversi ricordare che in tema di società di capitali, anche l’approvazione del bilancio non costituisce ratifica tacita dell’operato dell’amministratore in conflitto d’interessi, in quanto sia la disciplina del bilancio che quella dell’assemblea hanno natura imperativa e rispondono all’interesse pubblico ad un regolare svolgimento dell’attività economica (Cass. n. 6220/2013), essendo in ogni caso necessario che, sempre ai fini della convalida degli atti posti in essere in conflitto di interessi da parte dell’amministratore della società, deve risultare accertata univocamente, al di là della mera approvazione degli atti gestori, la volontà specifica di far proprio l’atto posto in essere dal rappresentante (Cass. n. 21517/2016), nella vicenda la sentenza ha sottolineato come in realtà le condotte che a detta della ricorrente deporrebbero per la convalida tacita, siano state poste in essere in epoca anteriore o coeva alla formalizzazione delle dimissioni del M., ed allorchè questi ancora rivestiva la qualità di amministratore delegato, persistendo quindi in capo al soggetto formalmente abilitato a porre in essere una convalida tacita quella situazione di conflitto di interessi che in via genetica ha inficiato la validità dei contratti, argomento questo che non risulta in alcun modo attinto dal mezzo di gravame in esame.
D’altronde la stessa ipoteticità della conoscenza della causa di invalidità del contratto (cfr. pag. 23, ove tra parentesi la ricorrente evidenza come la Bibo “poteva essere” a conoscenza del conflitto di interessi) esclude l’applicazione dell’art. 1444 c.c., che presuppone invece l’effettiva conoscenza della causa di annullamento (cfr. al riguardo Cass. n. 13296/2012 secondo cui solo un obbligo di conoscenza potrebbe essere equiparato alla effettiva conoscenza del vizio).
L’infondatezza della deduzione in punto di ammissibilità della convalida tacita implica poi che debbano essere disattese anche le censure, mosse espressamente in via conseguenziale all’accoglimento della denuncia della violazione dell’art. 1444 c.c., in merito alle pretese di pagamento delle maggiori somme richieste in via monitoria, non senza osservare che anche la critica al ragionamento svolto dai giudici di appello per individuare la somma effettivamente spettante alla ricorrente, per effetto dell’annullamento dei contratti, risulta del tutto generica e come tale inammissibile.
5. Il ricorso è pertanto rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza.
6. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 7.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 febbraio 2022.
Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2022