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Divorzio e nuovi parametri

Diritto di Famiglia Separazione e Divorzio

Divorzio e nuovi parametri: la ricognizione del panorama normativo del Tribunale di Treviso (in word)

Tribunale di Treviso, sentenza del 14 ottobre 2017

Si attenziona la sentenza emarginata del Tribunale di Treviso (Pres. Dr.ssa Ronzani – Est. Dr. Barbazza) che effettua con pregevole esaustività – prima di calarsi nel caso concreto – una “ricognizione del panorama normativo e giuridico” sulla questione relativa alla debenza o meno dell’assegno divorzile alla luce dei nuovi parametri di cui al revirement operato dalla Corte di Legittimità del maggio 2017.

SENTENZA (Integrale in PDF la trovate più sotto)

(omissis)

  1. Ricognizione del panorama normativo e giuridico

1.1 Il diritto al riconoscimento di assegno divorzile è previsto dalla legge 1 dicembre 1970, n. 898 la quale, all’art. 5, comma sesto, dispone: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. L’art. 5, comma sesto, pertanto, individua due momenti logicamente distinti che devono essere oggetto di analisi da parte dell’organo giudicante. Una prima fase, relativa all’ “an debeatur” (che collega l’obbligo di versamento dell’assegno al caso in cui il coniuge “non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”) e una seconda, necessariamente successiva e subordinata al positivo accertamento della precedente, volta alla determinazione del “quantum debeatur”: è, quindi, innanzitutto necessario che l’Autorità Giudiziale accerti se vi sia un effettivo diritto all’assegno e, solo nel caso di esito positivo di tale fase, potrà procedere alla quantificazione economica dello stesso. A seguito del revirement operato dalla Corte di Legittimità nel maggio 2017, al fine di verificare il positivo superamento del primo tipo di accertamento, risulta opportuno ripercorrere le principali tappe dell’evoluzione giurisprudenziale sul punto, evidenziando sin d’ora che, al momento della redazione della presente sentenza, è stata presentata alla Camera dei Deputati la proposta di legge C4605, relativa alle modifiche all’articolo 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, in materia di assegno spettante a seguito di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile. Il testo di tale proposta (attualmente all’esame della Commissione in sede referente), prevede che l’attribuzione di un assegno a favore di un coniuge sia “destinato a compensare [in via di emendamento è stato proposto di sostituire la parola: “compensare” con “equilibrare”], per quanto possibile, la disparità che lo scioglimento o la cessazione degli effetti del matrimonio crea nelle condizioni di vita dei coniugi”.

1.2. L’orientamento giurisprudenziale tradizionale scolpito dalla Corte di legittimità sino al maggio 2017 fondava il momento determinativo del diritto sul presupposto dell’“inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati a un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto” (fra le altre, cfr. Cassazione civile, sentenza 21 ottobre 2013, n. 23797). Si specificava, inoltre, che “il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali, laddove anche l’assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi”.  (In questo senso, anche Cassazione civile, sentenza 9 giugno 2015, n. 11870; Cassazione civile, sentenza 12 luglio 2007, n. 15610; Cassazione civile, sentenza 28 febbraio 2007, n. 4764). Non si riteneva, invece, necessaria la presenza di uno stato di bisogno, poiché si dava rilevanza ad un deterioramento apprezzabile delle condizioni economiche precedenti, che dovevano tendenzialmente essere ripristinate. L’inadeguatezza, pertanto, era intesa come insufficienza delle sostanze e dei redditi del richiedente ad assicurargli la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.

1.3. L’interpretazione dell’articolo 5, comma sesto, l. div. è stata profondamente modificata dal recente orientamento giurisprudenziale, inaugurato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 10 maggio 2017, n. 11504 e confermato dalla sentenza 22 giugno 2017, n. 15481. La Suprema Corte ha, infatti, ridelineato i presupposti del diritto all’assegno divorzile, specificando come il divorzio consista in un’estinzione del rapporto matrimoniale “sul piano non solo personale ma anche economico patrimoniale”. I giudici di legittimità hanno chiarito che la presenza di mezzi adeguati o la possibilità di procurarseli comporta la negazione tout court del diritto all’assegno di mantenimento.  In seguito al mutamento delle relazioni economico-sociali, infatti, risulta necessario ripensare al parametro di riferimento, che non può più consistere nel “tenore di vita” presente in costanza di matrimonio, in quanto ciò costituirebbe un’indebita “ultrattività del vincolo matrimoniale”. Il divorzio configura, infatti, in uno scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale (a differenza della separazione personale) e gli ex coniugi non devono più essere considerati quali costituenti un nucleo unitario, ma quali persone singole. La Suprema Corte afferma che si deve svolgere un’analisi sul “raggiungimento dell’ “indipendenza economica” del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto”, stante la natura eminentemente assistenziale dell’assegno (si vedano ancora Cass. 11504/2017 e Cass. 15481/2017, ma anche Trib. Udine, sent 2 novembre 2017; Corte d’Appello Milano, sez. V, sent. 20 settembre 2017, n. 4793; Trib. Roma, sez. I, sent. 23 giugno 2017; Trib. Milano, sez. IX, ordinanza 22 maggio 2017; Trib. Palermo, sez. I, sent. 12 maggio 2017).  Il diritto all’assegno divorzile, pertanto, nella nuova concezione riportata, non può quindi fondarsi, per ciò che concerne l’an debeatur, soltanto sulla presenza di un precedente vincolo matrimoniale e sulla mancanza di redditi adeguati a mantenere il tenore di vita goduto in costanza del vincolo, ma a quest’ultimo deve sommarsi lo stato di non autosufficienza o indipendenza economica del richiedente. La Corte di Cassazione, pertanto, conferma la finalità assistenziale dell’assegno divorzile ma afferma la necessità di modificare l’orientamento costantemente seguito, dopo l’intervento delle Sezioni Unite del 1990, in relazione ai presupposti per il riconoscimento dell’assegno. In particolare, il parametro del “tenore di vita matrimoniale” deve essere sostituito con quello della “autosufficienza economica”. Al di là della considerazione che sarebbe invece finalmente opportuno superare il dogma della natura assistenziale dell’assegno divorzile e affermare che, dopo il divorzio, sopravvive solo l’esigenza di compensare il coniuge debole per i sacrifici fatti a favore della famiglia durante il matrimonio, come evidenziato anche dagli interpreti più attenti, proprio nella perimetrazione del concetto di “autosufficienza economica” deve individuarsi il nucleo problematico del nuovo ragionamento prospettato dalla Corte di legittimità. La Cassazione ha enucleato una serie di indici per comprendere se possa ritenersi raggiunta o meno l’indipendenza economica della parte, in particolare “1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza (“dimora abituale”: art. 43 c.c. , comma 2) della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione”. In relazione a tali circostanze, l’onere probatorio grava sul richiedente, fermo restando il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’ex coniuge. Per quanto riguarda l’eventuale e successiva fase della determinazione del quantum debeatur, la linea guida deve consistere nel principio di solidarietà economica nei confronti dell’ex coniuge più debole, ai sensi degli artt. 2 e 23 Cost.

1.4 La giurisprudenza di merito successiva alle pronunce di legittimità citate ha applicato gli indici individuati dalla Corte di Cassazione con una valutazione effettuata in concreto, al fine di accertare lo stato di non autosufficienza o indipendenza economica del richiedente.  I giudici si sono riferiti alla capacità di sostenere le spese essenziali di vita (vitto, alloggio ed esercizio dei diritti fondamentali) o hanno utilizzato come parametro (non esclusivo) l’ammontare degli introiti che consente di accedere al patrocinio a spese dello Stato (€ 11.528,41 annui ossia circa € 1.000,00 mensili) oppure il reddito medio percepito nella zona in cui vive il richiedente (si vedano, ad esempio, Trib. Milano, sez. IX, ordinanza 22 maggio 2017). Ancora, si è fatto riferimento alla necessità che il richiedente provi di essersi attivato per reperire un’occupazione lavorativa consona all’esperienza professionale maturata e al titolo di studi conseguito o di essere nell’impossibilità, per impedimento fisico o altro, di svolgere qualsivoglia attività lavorativa (Trib. Roma, sez. I, sent. 23 giugno 2017). Ha notato, inoltre, che il parametro dell’indipendenza economica ben si sposa con la disciplina in tema di filiazione di cui all’art. 337 septies cod. civ, come specificato sia dalla Corte di Cassazione nella sent. 11504/2017, sia da Trib. Palermo, sez. I, sent. 12 maggio 2017: non sarebbe infatti coerente, dal punto di vista sistematico, riconoscere il diritto all’assegno divorzile nei confronti dell’ex coniuge economicamente indipendente, con il quale si è sciolto il vincolo matrimoniale, e non riconoscere il diritto all’assegno di contribuzione al mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne che abbia raggiunto l’indipendenza economica, con il quale un legame permane.

1.5 Altra parte della giurisprudenza di merito si è discostati dal nuovo orientamento, continuando ancora a fare riferimento al precedente parametro del tenore di vita.  Il Tribunale di Udine, con sent. 10 maggio 2017, ha evidenziato che i concetti di “mezzi adeguati” e “indipendenza economica” non trovano riscontro nel tessuto normativo, oltre ad essere labili e forieri di divergenti interpretazioni. In particolare, ha affermato che: “il concetto di indipendenza economica è particolarmente sfuggente e proteiforme, non essendo per nulla chiaro a cosa dovrebbe in concreto ancorarsi, vale a dire un indice medio delle retribuzioni degli operai e impiegati, o alla pensione sociale o ad un reddito medio rapportato alla classe economico sociale di appartenenza dei coniugi e alle possibilità dell’obbligato … con la conseguenza che ove si optasse per questa ultima soluzione il tanto vituperato criterio del tenore di vita in costanza di matrimonio e le ragionevoli aspettative future fatto uscire dalla porta verrebbe fatto rientrare immediatamente dalla finestra, perché i mezzi adeguati non potrebbero che essere rapportati alla condizione sociale ed economica delle parti in causa e ai loro redditi e quindi al loro tenore di vita passato e attuale”. Secondo questa prospettiva, non esiste una distinzione concreta tra la fase dell’an e quella del quantum e i parametri per l’assegno sono già presenti nella legge sul divorzio, in particolare nell’art. 5, commi quinto e nono, dove si indica anche il tenore di vita. La Corte d’Appello di Milano, invece, ha criticato l’interpretazione che unifica le due fasi, sostenendo che si è trattata di “Operazione ermeneutica errata, ma resa necessaria dal permanere di una interpretazione giurisprudenziale dei parametri di riferimento per definire i mezzi adeguati non più rispondente ai mutamenti sociali in atto, distorsione di cui il recente revirement della Corte di Cassazione si è fatto carico e che ha, condivisibilmente, superato. Il tenore di vita è un indice anch’esso relativo, se non altro perché muta nel tempo ed è legato a tanti fattori, sia di ordine sociale che personale, non ultimo il progredire dell’età. Nella generalità dei casi, inoltre, la frattura dell’unità familiare impoverisce entrambi i coniugi con la conseguenza che il tenore di vita dopo la separazione non è quasi mai paragonabile, per entrambi i coniugi, al tenore di vita in costanza di matrimonio. Non si ritiene pertanto che il canone del tenore di vita in costanza di matrimonio costituisse un parametro certo su cui poter fare affidamento e, in ogni caso, negli anni ha di fatto indotto la giurisprudenza ad una sovrapposizione delle valutazioni sull’ an e sul quantum, per rendere le decisioni comprensibili in relazione al comune sentire e alla evoluzione del costume sociale”. Altra pronuncia da analizzare è la sentenza 12 ottobre 2017, n. 106 della Corte d’Appello di Genova, che, prendendo atto della corrente situazione giurisprudenziale, ha preferito applicare in modo prudente il nuovo indirizzo della Corte di Cassazione.  La Corte d’Appello ligure ha evidenziato che: “È sicuramente possibile interpretare la sentenza della Cassazione come statuente il principio che tutti gli ex coniugi che abbiano un lavoro, anche sottopagato, siano autosufficienti e quindi non abbiano diritto ad alcun assegno di divorzio. Ma in questo modo non esiste poi il rischio di punire sistematicamente la moglie che si è impegnata duramente per continuare a lavorare e nello stesso tempo gestire casa ed i figli e favorire invece proprio quelle persone che sposato un coniuge benestante, hanno abbandonato ogni attività lavorativa? Ossia non corriamo il rischio di premiare proprio quella rendita parassitaria contro cui la Cassazione si è giustamente ribellata?”. Sempre nella stessa sentenza si legge inoltre: “Il criterio del medesimo tenore di vita in costanza di matrimonio non può essere più mantenuto anche perché ormai nella maggioranza dei casi il divorzio, aumentando le spese (anche solo due abitazioni invece che una), impoverisce i coniugi e quindi il tentativo di mantenere il tenore di vita precedente per uno dei coniugi fa precipitare l’altro ad un tenore di vita molto inferiore a quello prima goduto. Se pare poi sicuramente giusto punire le rendite parassitarie costituite dai casi in cui il coniuge economicamente più debole dopo uno o due anni di matrimonio decide di rompere il rapporto matrimoniale e di vivere di rendita alle spalle dell’altro coniuge, ad avviso della Corte non è lecito assumere comportamenti punitivi contro il coniuge che è rimasto sposato per quindici o venti anni e che con sacrifici ha continuato a lavorare per incrementare le risorse economiche familiari. Non è detto quindi che in caso di divorzio l’ex coniuge che lavori non abbia in via assoluta diritto ad un assegno divorzile, ma occorre valutare la necessità di una eventuale integrazione del suo reddito alla luce dei concreti oneri che lo stesso debba sostenere tenendo conto del suo lavoro, del suo patrimonio, della sua salute e della sua collocazione nella società”.

1.6 Alla luce del variegato panorama giurisprudenziale attuale, ci si deve interrogare su quali siano i parametri da adottare in caso di decisione sull’esistenza del diritto al percepimento dell’assegno divorzile. Le pronunce della Corte di Cassazione evidenziano, in modo certamente condivisibile, la necessità di non considerare il matrimonio come un vincolo ultrattivo rispetto allo scioglimento dello stesso, soffermandosi sull’importanza da attribuire al criterio dell’autosufficienza economica di ciascun coniuge, considerato come persona singola dopo il divorzio. Il nuovo orientamento, infatti, si adegua ad un mutamento storico-sociale della struttura familiare, ritenendo che parametrare il diritto ad un assegno divorzile al tenore di vita tenuto in costanza del vincolo sia ormai anacronistico e riferibile ad un modello quasi del tutto appartenente al passato, nel quale soltanto il marito svolgeva un’attività lavorativa, mentre la moglie si occupava della famiglia. Da un lato, oggi la struttura familiare si è modificata e si riscontrano sempre più casi nei quali entrambi i coniugi svolgono un’attività lavorativa: dunque riconoscere il diritto all’assegno divorzile basandosi soltanto sul tenore di vita precedente, si risolverebbe in una richiesta a volte ingiustificata da parte dell’ex coniuge; come correttamente osservano sia la Corte d’Appello di Milano sia la Corte d’Appello di Genova, il parametro del tenore di vita non è più utilizzabile, soprattutto guardando all’impoverimento subito dai coniugi in seguito al divorzio, in quanto porterebbe ad un inevitabile mutamento in pejus del tenore di vita stesso di colui che versa l’assegno. D’altro canto, tale esigenza va bilanciata con la necessità di equilibrare le fortune economiche dei coniugi rispetto agli sforzi e alle rinunce da ciascuno di essi effettuati a favore della famiglia, in modo tale che il coniuge più debole che al momento dello scioglimento del matrimonio non abbia redditi sufficienti a garantirgli l’indipendenza economica e non riesca a procurarseli incolpevolmente, ottenga un assegno divorzile che rappresenti anche una sorta di riconoscimento per l’attività svolta durante il matrimonio a favore del nucleo familiare. È, dunque, indispensabile individuare i parametri a cui ancorare il diritto all’assegno divorzile, evitando il rischio di trovare degli indici eccessivamente astratti.

1.7 Pertanto, alla luce dei criteri indicati dalla Suprema Corte nelle recenti pronunce di merito e alla luce del dettato legislativo di cui all’art. 5, comma sesto, l. div. (che rappresenta allo stato l’unico appiglio normativo), dobbiamo ritenere vi siano due ordini di parametri da utilizzare al fine di comprendere se vi sia autosufficienza economica del coniuge richiedente l’assegno divorzile. Da un lato, parametri di natura personale, dall’altro, parametri inerenti la sfera patrimoniale dei coniugi. In ciascuno di tali ambiti rientrano voci di varia natura che dovranno essere valutati dal tribunale complessivamente ed in relazione alla fattispecie concreta in esame. Per ciò che concerne i parametri di natura personale, vanno ricondotti in tale categoria: – le capacità fisiche e condizioni personali delle parti; – le possibilità effettive di lavoro delle parti in relazione alla salute, all’età, al sesso; – la ricerca da parte del coniuge eventualmente disoccupato di un’occupazione lavorativa consona all’esperienza professionale maturata e al titolo di studi conseguito o l’esistenza di concrete giustificazioni dell’impossibilità, per impedimento fisico o altra condizione personale, a svolgere qualsivoglia attività lavorativa; – le condizioni dei coniugi a seguito del divorzio, anche in relazione alla circostanza che uno dei coniugi si sia occupato prevalentemente della cura della famiglia, a scapito della propria attività lavorativa e della propria crescita professionale: come rilevato anche dalla Corte d’Appello di Genova, infatti, un’applicazione troppo rigorosa del nuovo orientamento giurisprudenziale rischia di penalizzare eccessivamente il coniuge che si sia dedicato prevalentemente alla famiglia, a scapito della propria attività lavorativa e della propria crescita professionale. Infatti, solo per elencare alcune situazioni concrete possibili, sicuramente è diverso – e necessita di soluzioni difformi – il caso di una coppia di giovani coniugi che hanno sempre entrambi svolto un’attività lavorativa e il cui matrimonio ha avuto breve durata, da quello di una coppia di coniugi che ha ormai superato i sessant’anni ed in cui soltanto il marito ha lavorato, mentre la moglie si è occupata sempre della famiglia a discapito della sua attività lavorativa, da quello ancora di una coppia in cui entrambi i coniugi hanno sempre lavorato e avuto dei figli, che al momento del divorzio sono minorenni o economicamente non autosufficienti. Quanto, invece, ai parametri di natura patrimoniale, devono essere tenute in considerazione: – le possibilità effettive di lavoro delle parti in relazione al mercato del lavoro esistente nella zona geografica in cui esse risiedono; – il possesso patrimoni mobiliari ed immobiliari e di redditi (anche non dichiarati) da parte dei coniugi, tenuto conto anche degli oneri che essi comportano; – il costo della vita nel luogo di residenza dei coniugi come certificato dai dati ISTAT più recenti e con eventuale riferimento alla provincia o regione di appartenenza; – la stabile disponibilità di una casa di abitazione ed il titolo in base al quale è detenuta; – la capacità di far fronte direttamente alle spese essenziali di vita (vitto, alloggio ed esercizio dei diritti fondamentali) o la necessità di accedere a sussidi economici erogati da enti territoriali o altre strutture pubbliche o private in base al reddito.

1.8 In relazione alla determinazione del quantum dell’assegno divorzile, peraltro, dovranno continuare ad essere tenuti in considerazione i parametri individuati dal legislatore all’art. 5, comma sesto, l. div.

(Omissis)

Scarica la sentenza integrale in PDF: Trib. Treviso, sentenza del 14 ottobre 2017

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