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Contratti

La riduzione ad equità della clausola penale nel contratto di leasing traslativo (Cass. 18195/07)

La penale può essere diminuita equamente dal giudice

In tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 c.c. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l’obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest’ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell’obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta (Penta, Le prove nel processo civile, Giuffrè 2019).

IL PRINCIPIO DI DIRITTO ENUNCIATO DALLA CORTE

In tema di “leasing” traslativo, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore il risarcimento del danno a favore del concedente può essere determinato anticipatamente, a norma dell’art. 1382 cod. civ., attraverso clausola penale, secondo una pattuizione che può comprendere la trattenuta delle rate versate, in quanto espressione dell’autonomia privata; il giudice peraltro, ai sensi dell’art. 1384 cod. civ., può ridurre equamente ed anche d’ufficio la prestazione assunta, in caso di manifesta eccessività della penale ovvero tenuto conto dell’entità dell’adempimento dell’obbligazione principale.

LA SENTENZA

Cassazione civile, Sez. III, Sentenza del 28/08/2007, n. 18195

(Omissis)

Svolgimento del processo

Con decreto monitorio del 4 luglio 1994 il presidente del Tribunale di Monza ingiungeva alla società S.M.P. s.r.l. di pagare alla società Figestim s.p.a. la somma di L. 111.731.895 a titolo di canoni, interessi convenzionali e penale relativamente ad un contratto di leasing, che assumeva si era risolto di diritto per l’inadempimento dell’utilizzatore società ingiunta.

La società S.M.P. s.r.l. proponeva opposizione, con la quale contestava la legittimità del decreto perchè emesso senza la idonea prova scritta, e, in via riconvenzionale, ai sensi dell’art. 1526 c.c. chiedeva la condanna della società di leasing alla restituzione delle rate riscosse, sostenendo che si trattava di trattava di leasing traslativo.

La società opposta contrastava l’opposizione e, in via subordinata, chiedeva la condanna della società S.M.P. s.r.l. al pagamento della somma di cui all’ingiunzione.

Il Tribunale rigettava l’opposizione.

Sull’impugnazione della società soccombente provvedeva la Corte d’appello di Milano con la sentenza pubblicata il 14 giugno 2002, che, qualificato il contratto intercorso tra le parti come leasing traslativo, in riforma della decisione del Tribunale, riconosceva il diritto dell’utilizzatore alla restituzione dei corrispettivi;

determinava la somma dovuta dall’utilizzatore alla società di leasing a titolo di penale e di equo compenso, operava la compensazione dei rispettivi crediti, condannava la società Figestim s.p.a. a pagare alla società S.M.P. s.r.l. la differenza di Euro 15.394,29 e condannava la società Figestim s.p.a. alle spese del doppio grado del giudizio.

Ai fini che ancora interessano i giudici dell’appello consideravano che:

a) il valore commerciale dei beni oggetto del leasing e la loro durata ben superiore a quella del contratto costituivano i due elementi per la qualificazione del rapporto come leasing traslativo;

b) non essendo consentito ai contraenti, nel leasing traslativo, stabilire convenzionalmente che, in caso di risoluzione del contratto, il concedente ha diritto di trattenere, a titolo di indennità per equo compenso, l’importo delle rate pagate, la società Figestim s.p.a. non poteva fare propri i relativi importi versati dalla società utilizzatrice;

c) l’equa remunerazione per il godimento dei beni andava determinata in ragione di L. 1.600.000 mensili per la durata di quaranta mesi;

d) la somma di L. 30.000.000, pagata dalla società S.M.P. s.r.l., andava imputata a canoni in precedenza non corrisposti e non ad interessi per ritardato pagamento di canoni scaduti;

e) la penale a carico della società utilizzatrice in conseguenza dell’avvenuta risoluzione del contratto, pattuita nella misura dei due terzi del corrispettivo totale del leasing, andava ridotta all’importo del 20% del corrispettivo medesimo.

Per la Cassazione della sentenza ha proposto ricorso principale la società S.M.P. s.r.l., che ha affidato l’accoglimento dell’impugnazione a quattro motivi.

Ha resistito con controricorso la società Figestim s.p.a., che ha proposto impugnazione incidentale sulla scorta di due motivi.

La società ricorrente principale ha presentato memoria.

Motivi della decisione

I ricorsi, impugnazioni distinte della medesima sentenza, sono riuniti (art. 335 c.p.c.).

Con il primo motivo dell’impugnazione incidentale – il cui esame deve per logica priorità precedere quello delle altre censure, trattandosi di definire la questione concernente la qualificazione del contratto ed il corrispondente suo regime giuridico – la società Figestim s.p.a., deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui all’art. 1526 c.c. assume che “il giudice del merito avrebbe errato sia nel ritenere che il contratto di leasing stipulato dalle parti fosse da inquadrare nello schema del leasing traslativo e non piuttosto in quello del leasing di godimento; sia nel ritenere che, pur qualificato il negozio come leasing traslativo, dovesse rendersi ad esso applicabile la disciplina di cui al comma 2, della suddetta norma dell’art. 1526 c.c. stante la previsione pattizia per la quale.

Sostiene, in particolare, che, pur nella considerazione della qualificazione di leasing traslativo assunta dal giudice del merito, l’applicabilità ad esso della norma di cui all’art. 1526 c.c. è esclusa da “un filone dottrinario e giurisprudenziale che è di diverso avviso” da quello prevalente e che la esclusione sarebbe dovuta derivare anche dalla ulteriore considerazione che, non avendo la norma codicistica natura imperativa ed inderogabile, di essa, nel caso di specie, si sarebbe dovuto fare applicazione.

La censura non può essere accolta per nessuno dei due profili in cui essa è stata articolata.

Quanto al primo profilo – premesso che ai negozi atipici o innominati possono legittimamente applicarsi, oltre le norme generali in materia di contratti, anche le norme regolatrici dei contratti nominati, quante volte il concreto atteggiarsi del rapporto, quale risultante dagli interessi coinvolti, faccia emergere situazioni analoghe a quelle disciplinate dalla seconda serie di norme – osserva questa Corte che costituisce principio ormai pacifico e risalente nella giurisprudenza di legittimità (ex plurimis: Cass., sez. un., n. 65/93; Cass., n. 9417/2001; Cass., n. 9161/2002; Cass., n. 6151/2003;

Cass., n. 12823/20003; Cass., n. 18229/2003) che la risoluzione della locazione finanziaria per inadempimento dell’utilizzatore non si estende alle prestazioni già eseguite, in base alle previsioni dell’art. 1458 c.c., comma 1, in tema di contratti ad esecuzione continuata e periodica, ove si tratti di leasing cosiddetto di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto, e dietro canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso dei beni stessi. La risoluzione sì sottrae, invece, a dette previsioni, e resta soggetta all’applicazione in via analogica delle disposizioni fissate dall’art. 1526 c.c., con riguardo alla vendita con riserva di proprietà, ove si tratti di leasing cosiddetto traslativo, pattuito con riferimento a beni atti a conservare alla scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione, e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto, rispetto al quale la concessione in godimento assume valore strumentale.

Di conseguenza, è stato precisato che, in ordine all’intenzione delle parti tradotta nell’accordo negoziale, l’indagine giudiziale deve mirare ad accertare se, in concreto, i beni concessi in leasing abbiano esaurito le potenzialità di cui erano capaci nel periodo di durata del contratto; a verificare il rilievo del patto di opzione per le parti; a stabilire se i canoni versati abbiano costituito il solo corrispettivo del godimento dei beni e siano stati corrispondenti al valore di consumazione economica dei beni in uso ovvero se abbiano avuto anche la funzione di costituire una frazione del prezzo per il definitivo acquisto.

La suddetta indagine, da condurre sulla scorta delle clausole contrattuali in ordine al tipo di negozio posto in essere dalle parti, rientra, pertanto, nei poteri del giudice del merito e risolve una tipica quaestio facti, che non è rivedibile, in sede di legittimità, se non per violazione dei criteri ermeneutici ovvero per vizio di motivazione.

Orbene, nel caso in esame, la statuizione del giudice del merito ha fatto buon governo della legge e della logica circa la qualificazione del contratto nel catalogo del c.d. leasing traslativo, che è stata desunta dai due elementi concorrenti dell’oggettivo valore commerciale dei beni oggetto del contratto e della notevole loro residuale entità sfruttabile anche oltre la scadenza del rapporto, elementi rispetto ai quali alle rate è stata riconosciuta la prevalente funzione di vero e proprio prezzo di vendita, piuttosto che quella di esclusivo corrispettivo del godimento per l’uso fattone dall’utilizzatore.

Con il primo motivo d’impugnazione – deducendo l’erronea ed omessa valutazione di risultanze probatorie su un punto decisivo della controversia – la società ricorrente principale critica la statuizione del giudice del merito relativamente alla circostanza che la somma di L. 30.000.000, corrisposta da essa ricorrente, doveva essere imputata a canoni in precedenza non versati e non invece agli interessi.

Assume che la decisione sul punto era stata fondata sulla sola ammissione di generica imputazione indicata dalla controparte, senza tener conto anche della puntualizzazione della stessa società Figestim s.p.a., siccome si sarebbe dovuto evincere dal contenuto confessorio della pagina 3 della memoria della stessa società.

La censura non è ammissibile per la sua genericità, in quanto, rispetto alla valutazione compiuta dal giudice di merito secondo cui la imputazione era quella corrispondente all’indicazione fattane dalla parte creditrice nella sua memoria, di questa la società ricorrente non riporta il tenore del preteso contenuto confessorio, per cui il motivo non realizza il requisito dell’autosufficienza, che consenta al giudice di legittimità di valutare la pertinenza e la decisività della censura medesima.

Con la memoria illustrativa la società ricorrente principale aggiunge che, in ogni caso, l’una o l’altra imputazione nulla toglierebbero al fatto che della somma effettivamente versata alla società concedente il leasing il giudice del merito avrebbe dovuto ordinare la restituzione ai sensi dell’art. 1526 c.c. perchè, risolto il contratto, la stessa società di leasing non aveva più titolo per poterla trattenere.

Anche questo profilo di doglianza non è ammissibile, in quanto trattasi di questione non già espressamente proposta con il ricorso e della quale non è possibile la introduzione in causa per il tramite della memoria di cui all’art. 378 c.p.c., la quale è destinata esclusivamente ad illustrare e chiarire le ragioni già compiutamente svolte con l’atto introduttivo dell’impugnazione ed a confutare le tesi avversarie, ma non a specificare od integrare, ampliandolo, il contenuto delle originarie argomentazioni, che non fossero state adeguatamente prospettate o sviluppate, e tanto meno, per dedurre nuove eccezioni o sollevare nuove questioni di dibattito, diversamente violandosi il diritto di difesa della controparte in considerazione dell’esigenza di valersi di un congruo termine per esercitare la facoltà di replica (da ultimo: Cass., sez. un., n. 11097/2006).

Con il terzo motivo d’impugnazione principale – deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui all’art. 1458 c.c. – la società ricorrente principale critica la decisione di secondo grado nella parte in cui il giudice di merito ha riconosciuto il diritto della società Figestim s.p.a. ad incamerare la somma di L. 69.000.000, prevista a titolo di penale a carico dell’inadempiente, ed assume che, poichè la risoluzione del contratto era derivata ad iniziativa di essa società S.M.P. s.r.l., tutte le clausole contrattuali non potevano continuare ad essere operative.

Aggiunge, in subordine, che, pur nella riduzione operata dal giudice del merito, l’importo della penale a suo carico era eccessivo ed incongruo, non essendo motivato il parametro, cui essa era stata rapportata, della ritenuta percentuale del 20% del mancato utile lordo complessivo che la società di leasing avrebbe tratto se il contratto non si fosse risolto per l’inadempimento della controparte.

Con il secondo motivo dell’impugnazione incidentale la ricorrente incidentale società Figestira s.p.a. – pure deducendo la violazione di legge in relazione all’art. 360 c.p.p., n. 3 – critica a sua volta la statuizione del giudice di merito in ordine alla disposta riduzione della penale e sostiene che la domanda di riduzione, diversamente da quello che la sentenza di secondo grado aveva affermato, non era stata formulata dalla parte interessata, onde alla pronuncia di riduzione non si sarebbe potuto pervenire d’ufficio.

Nessuno dei due motivi, che vanno esaminati congiuntamente quali profili distinti e contrapposti rispetto al medesimo thema decidendum, è fondato per le seguenti considerazioni:

1. la risoluzione del contratto per inadempimento non toglie efficacia alla clausola penale, ma. ne costituisce il necessario presupposto di applicabilità, posto che la norma di cui all’art. 1382 c.c. ad essa attribuisce la specifica funzione di liquidazione preventiva del danno, funzione che, come questa Corte ha già stabilito (Cass., n. 9161/2002), quale conseguente a pattuizione lecita espressione dell’autonomia privata, è ammessa anche nel leasing traslativo in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore;

2. come pure ribadisce in costante indirizzo questo giudice di legittimità (Cass., n. 7528/2002; Cass., n. 6380/2001), l’apprezzamento – in ordine sia all’eccessività dell’importo fissato con la clausola penale dalle parti contraenti per il caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, sia alla misura della riduzione equitativa dell’importo medesimo – rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui giudizio è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente basato sulla valutazione dell’interesse del creditore all’adempimento con riguardo all’effettiva incidenza sull’equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, indipendentemente da una rigida ed esclusiva correlazione con l’entità del danno subito, onde non sono fondate le contrapposte critiche delle parti sul punto, posto che nella specie l’adottato parametro di riferimento per la reductio ad aeguitatem della clausola non è illogico nè incongruo;

3. infine, sulla censura relativa all’adozione della reductio in assenza della domanda del soggetto interessato, in disparte la considerazione che la riduzione, nella specie, è stata effettuata in conseguenza di istanza di parte (siccome ha ritenuto il giudice del merito, affermando ciò si ricavava “inequivocabilmente” dall’assunto difensivo della società S.M.P. s.r.l.), osserva questo Collegio, in aderenza al più recente indirizzo interpretativo espresso sulla questione (Cass., Sez. Un., n. 18128/2005), che il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 c.c. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avvenga perchè l’obbligazione principale è stata in parte eseguita.

Il ricorso incidentale, pertanto, è rigettato.

Con il secondo motivo d’impugnazione – deducendo la violazione delle norme di cui agli artt. 99 e 345 c.p.c.. la società ricorrente principale denuncia che il giudice d’appello non avrebbe dovuto esaminare la domanda con la quale la società concedente il leasing aveva reclamato l’equo compenso, relativo all’utilizzazione dei beni oggetto del contratto, liquidato in complessive L. 64.000.000.

Sostiene che si tratterebbe di domanda nuova, non proposta in primo grado ed avanzata solo in appello, in ordine alla quale, peraltro, non vi sarebbe stata l’accettazione del contraddittorio.

La censura è fondata e l’accoglimento del motivo comporta che la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio per nuovo esame alla medesima Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Al leasing traslativo, al quale si applica la disciplina della vendita con riserva di proprietà, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, mentre quest’ultimo, restituita la cosa, ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, al concedente la norma riconosce, oltre al risarcimento del danno, il diritto ad un equo compenso per l’uso dei beni oggetto del contratto, che costituisce la remunerazione del godimento dei beni medesimi e del deprezzamento conseguente alla sua non commerciabilità come nuovo ed al logoramento per l’uso (Cass., n. 574/2005; Cass., n. 9161/2002;

Cass., n. 2743/94; Cass., n. 8454/92).

Il risarcimento del danno ed il diritto all’equo compenso costituiscono, pertanto, azioni distinte, che adempiono a scopi diversi e che, quindi, richiedono la espressa domanda.

Orbene, nel caso di specie la società Figestim s.p.a. con il ricorso per decreto ingiuntivo, che è l’atto in-troduttivo della presente controversia, aveva reclamato – siccome da atto la medesima sentenza impugnata in questa sede – i canoni scaduti, gli interessi convenzionali e la penale, ma non anche, per il caso di ritenuta sussistenza del leasing traslativo, l’equo compenso da liquidarsi ad opera del giudice.

Nè tale domanda poteva ritenersi compresa nella richiesta della somma a titolo di canoni scaduti, giacchè, rispetto alla richiesta dei canoni, il reclamo dell’equo indennizzo comporta l’accertamento giudiziale di una pretesa diversa da quella fatta valere in primo grado, che per la sua intrinseca essenza ha determinato l’introduzione di un nuovo tema di indagine e di decisione, onde è da escludere che si possa ritenere l’ipotesi della mera emendatio libelli.

Al giudice di rinvio è rimessa anche la pronuncia sulle spese del presente giudizio di Cassazione (art. 385 c.p.c., comma 3).

Resta assorbito l’ultimo mezzo di doglianza dell’impugnazione principale, relativo al regime delle spese processuali del doppio grado del giudizio di merito.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il primo ed il terzo motivo del ricorso principale nonchè il ricorso incidentale; accoglie il secondo motivo del ricorso principale e dichiara assorbito il quarto motivo dello stesso ricorso principale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.

Così deciso in Roma, il 21 giugno 2007.

Depositato in Cancelleria il 28 agosto 2007

 

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