IL PRINCIPIO DI DIRITTO ENUNCIATO DALLA CORTE
Nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore non collocatario per il mantenimento del figlio, anche se maggiorenne e non autosufficiente, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto. L’applicazione di tale principio di proporzionalità si connota, in modo particolare, nei rapporti interni fra i genitori, quando uno di essi sia privo di redditi e di cespiti propri e percepisca un assegno posto a carico dell’altro genitore con funzione assistenziale.
Inoltre, il principio di uguaglianza che accumuna i figli di genitori coniugati ai figli di genitori separati o divorziati (che continuano a vivere insieme o che hanno cessato la convivenza), impone di tenere a mente che tutti i figli hanno uguale diritto di essere mantenuti, istruiti, educati e assistiti moralmente, nel rispetto delle loro capacità delle loro inclinazioni naturali e delle loro aspirazioni (art. 315 bis, comma 1, c.c.).
È per questo che l’art. 337 ter c.c., pone subito, come parametri da tenere in considerazione, le attuali esigenze dei figli e il tenore di vita goduto da questi ultimi durante la convivenza con entrambi i genitori
Infatti, i diritti dei figli di genitori che non vivono insieme non possono essere diversi da quelli dei figli di genitori che stanno ancora insieme, né i genitori possono imporre delle privazioni ai figli per il solo fatto che abbiano deciso di non vivere insieme.
Così l’art. 337 ter, comma 4, c.c.: “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.“
L’ORDINANZA
Cassazione civile, Sez. I, Ordinanza del 26/01/2024, n. 2536
(Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente, Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere Rel.)
(omissis)
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Pesaro, con la sentenza n. 171/2021, pubblicata il 05/03/2021, ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da A.A. e B.B. in data 03/10/1993, ponendo a carico di quest’ultimo un assegno di Euro 750,00 mensili per ciascuno dei due figli, C.C. (nato il Omissis) e D.D. (nata il Omissis), adottati nel 2009, conviventi con la madre, da rivalutarsi annualmente secondo gli indici ufficiali Istat, oltre all’80% delle spese straordinarie per gli stessi figli, individuate e concordate come da protocollo in materia di famiglia in uso presso il Tribunale di Pesaro, rigettando la domanda della A.A. volta ad ottenere l’attribuzione di un assegno divorzile.
Quest’ultima ha proposto appello chiedendo, in parziale riforma della gravata sentenza, di porre a carico dell’appellato un assegno divorzile di Euro 1.500,00 mensili, rivalutabile annualmente secondo gli indici ufficiali Istat, e di determinare in Euro 1.000,00 l’assegno a carico del padre a titolo di contributo al mantenimento di ciascun figlio, oltre al 100% delle spese straordinarie.
La Corte d’appello ha riconosciuto la spettanza dell’assegno divorzile in favore dell’appellante, determinato in Euro 600,00 mensili, ma ha ritenuto adeguato l’assegno previsto dal primo giudice a titolo di contributo al mantenimento dei figli.
Avverso tale pronuncia A.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
L’intimato si è difeso con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria difensiva.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 898 del 1970, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello riconosciuto all’assegno divorzile la mera funzione assistenziale con esclusione della componente compensativa – perequativa e comunque per averne quantificato la misura dell’assegno senza tenere conto delle circostanze concrete che presentava il contesto individuale e sociale della richiedente, a seguito della fine di un’unione coniugale durata ben venticinque anni, oltre ai precedenti dieci anni di fidanzamento.
Con il secondo motivo di ricorso e dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 l. n. 898 del 1970, nonché degli artt. 315 bis, 316 bis e 337 ter, comma 4, c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto di non dover prevedere un maggiore importo a titolo di contributo al mantenimento dei figli e di non porre ad esclusivo carico del padre le spese straordinarie.
2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
2.1. Occorre precisare che la ricorrente ha, in primo luogo, ritenuto non conforme a diritto la statuizione impugnata, nella parte in cui ha ritenuto sussistenti i presupposti per il riconoscimento della mera funzione assistenziale dell’assegno divorzile, con esclusione della componente compensativo – perequativa.
Nel formulare la censura, la parte ha dedotto che il giudice di appello ha erroneamente escluso che le scelte adottate in via di fatto dai coniugi nel corso della vita coniugale e la definizione dei ruoli della coppia avessero comportato il sacrificio delle aspettative di lavoro di uno dei due coniugi, affermando che era stato, invece, dimostrato che l’imprinting dato dal B.B. alla vita coniugale aveva determinato la mancata acquisizione di formazione e competenza professionale in capo alla A.A. al fine di intraprendere attività lavorativa e/o professionale che, all’epoca dell’inizio dell’unione coniugale, sarebbe stata possibile.
Non risulta tuttavia specificato come e quando sia stato allegato, e provato, quanto appena riportato in ordine al sacrificio di realistiche occasioni lavorative e professionali della ricorrente, operato dalla donna per dedicarsi, con l’accordo del marito alla famiglia, cosi contribuendo alla formazione del patrimonio familiare o di quello dell’ex marito.
In assenza di tali elementi, il motivo, sotto il profilo in esame, si presenta una critica del tutto generica alla valutazione operata dal giudice di merito, che non supera il vaglio di inammissibilità ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c.
2.2. Nel censurare, in secondo luogo, la determinazione dell’assegno in base alla componente assistenziale, la ricorrente ha evidenziato che la Corte di merito, nell’accertare l’inadeguatezza dei suoi redditi e l’impossibilità di procurarseli, aveva rilevato che quest’ultima non disponeva di fonti di reddito, avendo curato mostre e pubblicazioni artistiche e venduto opere in via del tutto occasionale, senza avere mai svolto attività lavorativa, e che, a seguito del divorzio, non poteva inserirsi nel modo del lavoro, sia perché priva di competenze professionali specifiche, sia perché ormai di età avanzata (54 anni), sia perché sofferente di una patologia psichiatrica (disturbo bipolare di tipo 1, accertato nel corso del giudizio di primo grado a mezzo CTU). Riguardo al B.B., la medesima ricorrente ha, poi, evidenziato che il giudice d’appello aveva preso atto dell’ingente patrimonio di cui il medesimo era dotato, al punto da consentirgli di non svolgere alcuna attività lavorativa (dipendente o autonoma), poiché amministrandolo ne trae rilevanti utili, tanto che in sede di separazione consensuale si era obbligato a versare alla A.A. un assegno mensile di Euro 2.300,00 per il mantenimento personale, provvedendo al contempo all’integrale mantenimento, anche nelle spese straordinarie, dei due figli che all’epoca erano collocati appunto presso il padre. Tuttavia, nel quantificare l’assegno divorzile, sempre secondo la ricorrente, la menzionata Corte non aveva considerato le circostanze concrete della situazione post coniugale della donna, poiché la previsione di un assegno di Euro 600,00 mensili, rivalutabili annualmente, era del tutto inidonea a garantirle quell’adeguatezza dei mezzi che le effettive condizioni economiche degli ex coniugi imponevano, tenuto conto che la donna non lavorava, non era più in grado di inserirsi nel mondo del lavoro e, dopo venticinque anni di matrimonio e dieci di fidanzamento, non aveva fonti di reddito o cespiti patrimoniali, pur dovendo farsi carico di oneri di locazione dell’immobile abitato da lei e dai figli, oltre che del 20% delle spese straordinarie per questi ultimi.
È tuttavia evidente che, in questo modo, non è censurata la valutazione in diritto operata dal giudice di merito, ma quella in fatto, semplicemente perché l’importo dell’assegno non è ritenuto, in fatto, adeguato.
La critica attiene, dunque, alla valutazione di merito operata dalla Corte, in sé non suscettibile di censura in sede di legittimità se non nei limiti in cui è possibile far valere l’omesso esame di fatti decisivi ai sensi e nei termini previsti dall’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.
3. Il secondo motivo di ricorso è, invece fondato, sia pure nei termini di seguito evidenziati.
3.1. Parte ricorrente ha evidenziato che, nella quantificazione dell’assegno di mantenimento per i figli, trova ancora applicazione il criterio del tenore di vita goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori ed anche il principio di proporzionalità al reddito dei genitori deve guidare anche la ripartizione delle spese straordinarie necessarie per i figli. La stessa parte ha pure dedotto che l’appellato non consuma neanche un pasto a settimana con i figli, non provvedendo cosi in alcun modo al loro mantenimento diretto.
Secondo la ricorrente, dunque, la sentenza impugnata non è stata conforme a diritto, avendo la Corte di appello di Ancona quantificato il contributo paterno al mantenimento dei figli senza tenere conto dei parametri normativamente previsti e con malgoverno del principio di proporzionalità, sia con riferimento al mantenimento ordinario che alla ripartizione delle spese straordinarie tra i genitori.
3.2. Com’è noto, ai fini della determinazione della misura del contributo al mantenimento, sia esso destinato ai figli minori di età o ai figli maggiorenni ma non ancora dipendenti economicamente, deve guardarsi al disposto dell’art. 337 ter, comma 4, c.c. che, introdotto dall’art. 55 D. Lgs. n. 154 del 2013, riproduce quanto già stabilito all’art. 155, comma 4, c.c. a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 l. n. 54 del 2006 (cosi Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 2020 del 28/01/2021 e Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 19299 del 16/09/2020).
La norma, in particolare, prevede che “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.”
3.3. Si deve, a questo proposito, considerare che l’obbligo di mantenimento dei figli ha due dimensioni.
Da una parte vi è il rapporto tra genitori e figlio e da un’altra vi è il rapporto tra genitori obbligati.
Il principio di uguaglianza che accumuna i figli di genitori coniugati ai figli di genitori separati o divorziati, come pure a quelli nati da persone non unite in matrimonio (che continuano a vivere insieme o che hanno cessato la convivenza), impone di tenere a mente che tutti i figli hanno uguale diritto di essere mantenuti, istruiti, educati e assistiti moralmente, nel rispetto delle loro capacità delle loro inclinazioni naturali e delle loro aspirazioni (art. 315 bis, comma 1, c.c.).
È per questo che l’art. 337 ter c.c., nel disciplinare la misura del contributo al mantenimento del figlio, nel corso dei giudizi disciplinati dall’art. 337 bis c.c., pone subito, come parametri da tenere in considerazione, le attuali esigenze dei figli e il tenore di vita goduto da questi ultimi durante la convivenza con entrambi i genitori (art. 337 ter, comma 4, nn. 1) e 2), c.c.).
I diritti dei figli di genitori che non vivono insieme, infatti, non possono essere diversi da quelli dei figli di genitori che stanno ancora insieme, né i genitori possono imporre delle privazioni ai figli per il solo fatto che abbiano deciso di non vivere insieme.
Nei rapporti interni tra genitori vige, poi, il principio di proporzionalità rispetto al reddito di ciascuno.
Per i genitori sposati, il dovere di contribuire al mantenimento del figlio è regolato dall’art. 143, comma 3, c.c. che sancisce il dovere di entrambi i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alle capacità di lavoro professionale e casalingo.
In generale, l’art. 316 bis, comma 1, c.c. prevede, poi, che i genitori (anche quelli non sposati) devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Lo stesso criterio di proporzionalità deve essere seguito dal giudice, quando, finita la comunione di vita tra i genitori (siano essi sposati oppure no) è chiamato a determinare la misura del contributo al mantenimento da porre a carico di uno di essi, dovendo considerare le risorse economiche di ciascuno (art. 337 ter, comma 4, n. 4), c.c.), valutando anche i tempi di permanenza del figlio presso l’uno o l’altro genitore e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascuno (art. 337 ter, comma 4, nn. 3) e 5), c.c.), quali modalità di adempimento in via diretta dell’obbligo di mantenimento che, pertanto, incidono sulla necessità e sull’entità del contributo al mantenimento in termini monetari.
È evidente che gli elementi di giudizio appena elencati costituiscono aspetti in cui il principio di proporzionalità si declina, ove le esigenze del figlio e il tenore tenuto durante la convivenza dei genitori indirizzano il contributo che ciascuno dei genitori è chiamato a dare, oltre che la misura dell’assegno periodico da porre eventualmente a carico di uno di essi.
In tale quadro si colloca la più recente giurisprudenza di legittimità, condivisa da questo Collegio, la quale ha più volte evidenziato che, nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore non collocatario per il mantenimento del figlio, anche se maggiorenne e non autosufficiente, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che, nei rapporti interni tra i genitori, richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 4145 del 10/02/2023; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 19299 del 16/09/2020).
3.4. Ovviamente l’applicazione di tale principio di proporzionalità si connota in modo particolare, nei rapporti interni tra genitori, quando uno di essi sia privo di redditi e di cespiti propri e percepisca, come nel caso di specie, un assegno posto a carico dell’altro genitore con funzione assistenziale.
In questo caso, resta pur sempre il compito del giudice valutare la misura del contributo economico al mantenimento del genitore percettore di reddito, secondo il criterio di proporzionalità nella duplice accezione sopra evidenziata, ma egli deve tenere conto, anche ai fini della determinazione della misura del contributo alle spese straordinarie, del fatto che vi è un genitore privo di redditi e di cespiti propri, che, anzi, gode di un assegno divorzile destinato alla sua assistenza.
Nella motivazione della sentenza impugnata si legge soltanto quanto segue: “L’assegno a titolo di contributo al mantenimento dei figli, cosi come determinato dal primo giudice in Euro 750,00 ciascuno, risulta a parere del Collegio tale da garantire le esigenze di vita dei due ragazzi, tenuto conto della loro età e degli attuali impegni di studio, cosi come la ripartizione delle spese straordinarie, poste pressoché totalmente a carico del padre.”
Non vi è alcun riferimento alle condizioni reddituali e patrimoniali del padre dei ragazzi, né alcuna considerazione del fatto che la madre degli stessi, priva di redditi e di cespiti patrimoniali, percepisca dall’ex marito un assegno divorzile con funzione assistenziale, sicché, a fronte della certa assenza di redditi propri di quest’ultima, non risulta ponderato alcun elemento concreto per verificare il rispetto del principio di proporzionalità, regolato dall’art. 337 ter, comma 4, c.c., sia nella determinazione del contributo periodico al mantenimento dei figli sia nella partecipazione solo in termini percentuali alle spese straordinarie ad essi relative.
4. In conclusione, deve essere accolto il secondo motivo di ricorso nei termini appena indicati e, dichiarato inammissibile il primo, la sentenza impugnata deve essere cassata nei limiti del motivo accolto e la causa deve essere inviata alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità.
5. In caso di diffusione, devono essere omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nella decisione, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte
accoglie il secondo motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione e, dichiarato inammissibile il primo, cassa la decisione impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che, in caso di diffusione della presente decisione, siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati, a norma dell’art. 52 D. Lgs. n. 196 del 2003.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 6 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2024.