Sanzione da 70.000 euro per l’uso improprio del numero personale di una dipendente inserita in un gruppo WhatsApp aziendale senza base giuridica
L’Agenzia spagnola per la protezione dei dati (AEPD) ha sanzionato (vedi provvedimento) con 70.000 euro la società LVMH Iberia, filiale del gruppo del lusso, per aver utilizzato il numero di cellulare personale di una propria dipendente inserendola in un gruppo WhatsApp aziendale senza il suo consenso.
La vicenda prende avvio dalla segnalazione della lavoratrice, alla quale l’azienda aveva richiesto di usare temporaneamente il proprio telefono privato per esigenze di servizio, nell’attesa della consegna di un dispositivo aziendale che però non le era mai stato fornito.
Durante un periodo di ferie, la dipendente aveva espressamente comunicato via email di non voler più utilizzare il numero personale per scopi lavorativi e aveva abbandonato il gruppo WhatsApp interno. Nonostante ciò, pochi giorni dopo, l’azienda l’aveva nuovamente inserita in un gruppo aziendale, senza alcuna autorizzazione.
LVMH ha tentato di giustificare la condotta sostenendo che si trattava di una misura eccezionale, limitata ai soli dipendenti, adottata per far fronte all’assenza di dispositivi aziendali. Tuttavia, l’AEPD ha ritenuto illegittimo il trattamento, rilevando l’assenza di una base giuridica ai sensi dell’art. 6, par. 1, GDPR.
L’autorità ha ricordato che il numero di telefono personale è un dato personale e che il suo utilizzo all’interno di strumenti di comunicazione aziendale costituisce un trattamento che deve essere sorretto da consenso, necessità contrattuale o altra valida base legittimante. La presenza di una policy interna non esonera l’azienda dall’obbligo di rispettare le norme sulla protezione dei dati.
L’infrazione è stata qualificata come “molto grave”. La sanzione iniziale di 70.000 euro è stata ridotta del 40% in ragione del riconoscimento di responsabilità e del pagamento volontario da parte della società.
Perché il numero di cellulare personale del dipendente è “dato personale” (e perché l’azienda rischia)
Nell’ambito del rapporto di lavoro, l’uso dei dati personali dei dipendenti è una materia particolarmente delicata. Tra questi, anche il numero di telefono personale rientra a pieno titolo nella nozione di dato personale prevista dal Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR), in quanto consente di identificare direttamente una persona fisica. Di conseguenza, il suo impiego in contesti professionali — come l’inserimento in un gruppo WhatsApp aziendale o l’utilizzo per comunicazioni di servizio — rappresenta a tutti gli effetti un trattamento di dati personali e, come tale, deve rispettare i principi di liceità, correttezza, trasparenza, minimizzazione e proporzionalità.
Molte aziende, soprattutto di piccole e medie dimensioni, commettono l’errore di considerare questo tipo di trattamento come una semplice formalità o una pratica “innocua”. In realtà, l’utilizzo del numero privato di un lavoratore senza consenso o senza una base giuridica valida costituisce una violazione della normativa privacy. L’art. 6 del GDPR elenca chiaramente i presupposti di liceità del trattamento: il consenso esplicito dell’interessato, la necessità contrattuale (ad esempio, per l’esecuzione del contratto di lavoro), un obbligo legale, oppure un interesse legittimo dell’azienda, purché questo non prevarichi i diritti e le libertà fondamentali del lavoratore.
Quando il datore di lavoro decide di inserire un dipendente in un gruppo di messaggistica aziendale utilizzando il suo numero personale, dovrebbe quindi prima chiedersi se dispone effettivamente di una base giuridica appropriata e, soprattutto, se abbia fornito un’informativa trasparente. Senza questi elementi, si configura un trattamento illecito. Le sanzioni per violazioni del GDPR possono essere molto elevate, arrivando fino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato annuo globale, ma anche nei casi meno gravi — come l’utilizzo improprio di numeri personali — le autorità di controlloapplicano sanzioni amministrative proporzionate ma significative.
Dal punto di vista pratico, l’uso scorretto del numero personale del dipendente può inoltre creare tensioni interne e compromettere il clima di fiducia in azienda. Un lavoratore che percepisce una violazione della propria sfera privata o che viene contattato su un numero personale per motivi lavorativi fuori dall’orario di servizio, può sentirsi invaso nella propria privacy e reagire con segnalazioni, reclami o perfino azioni legali. Per questo motivo, la corretta gestione dei dati personali dei dipendenti non è solo una questione di adempimenti formali, ma rappresenta un vero e proprio obbligo giuridico e un segno di serietà organizzativa.
Cosa sta accadendo oggi: indicazioni aggiornate dalle Autorità
Negli ultimi anni, le Autorità di protezione dei dati di diversi Paesi europei hanno intensificato i controlli in materia di privacy aziendale, con particolare attenzione al modo in cui le imprese gestiscono i dati personali dei propri dipendenti. L’evoluzione tecnologica, l’uso diffuso di piattaforme come WhatsApp, Telegram o Teams, e la tendenza delle aziende a comunicare tramite canali informali hanno portato a una moltiplicazione dei rischi di violazione del GDPR.
Un caso emblematico è quello affrontato recentemente dall’Agenzia spagnola per la protezione dei dati (AEPD), che ha sanzionato una nota società del settore del lusso con una multa di 70.000 euro per aver utilizzato il numero di cellulare personale di una dipendente all’interno di un gruppo WhatsApp aziendale senza il suo consenso. La lavoratrice aveva inizialmente accettato di utilizzare il proprio telefono per esigenze temporanee, in attesa di ricevere un dispositivo aziendale. Tuttavia, dopo aver espresso per iscritto la volontà di non essere più contattata su quel numero, è stata reinserita nel gruppo senza autorizzazione.
L’AEPD ha qualificato il comportamento dell’azienda come trattamento illecito di dati personali, sottolineando che l’assenza di una base giuridica valida non può essere giustificata da mere esigenze organizzative. Il principio di necessità e proporzionalità richiede che il datore di lavoro limiti il trattamento dei dati personali dei dipendenti al minimo indispensabile, nel rispetto della vita privata e del diritto alla disconnessione digitale.
La decisione dell’AEPD non è isolata: riflette una tendenza comune tra le autorità europee, che stanno progressivamente ampliando il perimetro di tutela dei lavoratori anche nei confronti di strumenti di messaggistica istantanea. Questi strumenti, se non gestiti con una policy aziendale chiara, possono sfociare in un utilizzo improprio dei dati personali, specialmente quando si usano numeri privati per comunicazioni di lavoro o quando i messaggi vengono scambiati fuori dall’orario di servizio.
In Italia, il Garante per la protezione dei dati personali ha più volte richiamato le aziende alla prudenza nell’utilizzo di canali digitali per fini lavorativi. Anche se non sempre si arriva a una sanzione, le verifiche ispettive stanno aumentando e riguardano soprattutto le realtà che non hanno adottato procedure interne adeguate a disciplinare l’uso dei dati dei dipendenti.
Un elemento fondamentale è la trasparenza: il lavoratore deve sapere chi può visualizzare il suo numero, per quali finalità, per quanto tempo e con quali limiti. Senza questa consapevolezza, l’azienda rischia di violare i principi di correttezza e liceità del trattamento previsti dagli articoli 5 e 6 del GDPR.
In sintesi, le recenti sanzioni mostrano che non esiste un uso “innocuo” del numero personale in ambito lavorativo. Ogni volta che un’azienda tratta o diffonde il numero di cellulare privato dei propri dipendenti, anche se in un contesto interno, deve poter dimostrare di avere una base giuridica legittima e di aver rispettato i diritti fondamentali della persona. Il principio “nessun danno, nessuna violazione” non trova applicazione nel GDPR: anche un semplice errore di valutazione nella gestione dei dati personali può comportare sanzioni amministrative rilevanti e un danno reputazionale duraturo.
Rischi per l’azienda: sanzioni, reputazione e compliance
Quando un’azienda utilizza il numero personale di un dipendente per comunicazioni lavorative — ad esempio inserendolo in un gruppo WhatsApp aziendale senza il suo consenso — non mette a rischio solo la conformità normativa, ma anche la propria credibilità interna ed esterna.
Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) impone infatti agli operatori economici un obbligo di responsabilità proattiva: ogni trattamento deve essere giustificato, documentato e proporzionato rispetto alle finalità dichiarate. In assenza di questi requisiti, il trattamento è da considerarsi illecito.
Il primo rischio concreto è quello sanzionatorio. Le autorità garanti europee, compreso il Garante Privacy italiano, stanno applicando criteri sempre più rigorosi. Le sanzioni per violazione dei dati personali dei dipendenti possono variare da alcune migliaia di euro fino a importi ben più elevati, proporzionati al fatturato dell’impresa e alla gravità dell’infrazione. Nel caso esaminato in Spagna, l’AEPD ha imposto un’ammenda di 70.000 euro, riconducendo il comportamento dell’azienda a una violazione molto grave ai sensi dell’art. 83 del GDPR.
Anche se, come spesso accade, la cifra può essere ridotta in caso di pagamento volontario o riconoscimento di responsabilità, la sanzione resta comunque un chiaro segnale: la protezione dei dati dei lavoratori non è più un tema secondario, ma un indicatore di compliance e governance aziendale.
Oltre all’aspetto economico, c’è un rischio meno visibile ma spesso più dannoso: quello reputazionale. Una notizia di sanzione o un reclamo al Garante può diffondersi rapidamente online e minare la fiducia dei collaboratori e dei partner commerciali. Un lavoratore che percepisce di non essere tutelato nella propria privacy si sentirà meno motivato e più diffidente verso l’organizzazione.
Al contrario, un’impresa che adotta policy trasparenti, strumenti adeguati e formazione interna in materia di protezione dati comunica attenzione, serietà e rispetto verso i propri dipendenti.
Non bisogna poi sottovalutare il rischio legato al diritto alla disconnessione digitale. Se un’azienda utilizza il numero privato di un lavoratore per contattarlo anche fuori dall’orario di servizio o durante le ferie, può violare non solo il GDPR ma anche le norme sul riposo e sulla tutela della persona.
Il dipendente, infatti, ha diritto a essere lasciato libero da obblighi lavorativi al di fuori dell’orario previsto, e ogni comunicazione “invasiva” sul suo telefono personale può integrare un comportamento scorretto o addirittura vessatorio.
Infine, sul piano operativo, la mancanza di una corretta governance dei dati personali può portare a ulteriori conseguenze: audit negativi, blocco dei trattamenti, revoca di certificazioni e obbligo di adeguamento immediato.
Tutto ciò comporta costi aggiuntivi e perdita di tempo prezioso per l’attività aziendale.
Per questo motivo, oggi la compliance privacy non deve essere percepita come un adempimento burocratico, ma come una strategia di tutela legale e gestionale: un investimento che previene sanzioni, contenziosi e danni all’immagine.
In sintesi, l’uso improprio del numero personale del dipendente non è una leggerezza: è una violazione che può costare cara. Le aziende dovrebbero considerare la protezione dei dati dei propri collaboratori come parte integrante della cultura organizzativa, al pari della sicurezza sul lavoro o della corretta gestione contrattuale. Solo così è possibile garantire un ambiente conforme, etico e rispettoso dei diritti fondamentali delle persone.
Cosa deve fare un’azienda
Una delle maggiori difficoltà per le imprese consiste nel capire come agire concretamente per evitare sanzioni e garantire la piena conformità al GDPR. Spesso non basta essere “in buona fede” o confidare nella collaborazione del personale: serve una struttura organizzativa chiara, con regole, responsabilità e documentazione che dimostrino la liceità dei trattamenti.
L’obiettivo è creare un sistema di privacy management aziendale in grado di prevenire violazioni e di dimostrare la propria diligenza in caso di controlli.
Il primo passo è la mappatura delle finalità. Ogni azienda deve chiedersi perché intende utilizzare il numero personale dei dipendenti: si tratta di una reale necessità operativa o di una semplice comodità gestionale?
Se il fine è esclusivamente organizzativo — come nel caso dell’inserimento in un gruppo WhatsApp per aggiornamenti interni — l’impresa deve valutare se può raggiungere lo stesso risultato tramite strumenti aziendali (come un telefono di servizio o una piattaforma interna). In mancanza di tale alternativa, il datore di lavoro dovrà dimostrare la necessità e proporzionalità del trattamento, due principi cardine del GDPR.
La seconda fase riguarda la base giuridica del trattamento. L’uso del numero privato del lavoratore richiede sempre una giustificazione normativa:
-
Consenso espresso e documentato, fornito in modo libero e informato, senza pressioni o condizionamenti.
-
Necessità contrattuale, se il trattamento è strettamente connesso all’esecuzione del rapporto di lavoro.
-
Obbligo legale, nei casi in cui la legge imponga specifiche comunicazioni.
-
Interesse legittimo, ma solo se bilanciato con i diritti e le libertà fondamentali del lavoratore.
In tutti i casi, l’azienda deve redigere un’informativa trasparente e completa.
Questo documento, previsto dagli articoli 13 e 14 del GDPR, deve specificare:
-
la finalità del trattamento (es. comunicazioni interne);
-
i soggetti che possono accedere ai dati;
-
i tempi di conservazione;
-
la base giuridica utilizzata;
-
i diritti dell’interessato, inclusi accesso, rettifica, opposizione, limitazione e cancellazione.
Segue poi l’adozione di una policy aziendale interna.
Le aziende dovrebbero disciplinare in modo esplicito l’utilizzo di strumenti di messaggistica istantanea (come WhatsApp o Telegram) per finalità lavorative, stabilendo chi può creare gruppi, con quali criteri e quali dati personali possono essere condivisi.
Una buona policy deve inoltre richiamare il diritto alla disconnessione digitale, garantendo che nessun dipendente sia obbligato a rispondere a messaggi o chiamate di lavoro al di fuori dell’orario contrattuale.
Altro elemento cruciale è la minimizzazione dei dati.
Il principio impone di trattare solo le informazioni realmente necessarie e di limitarne la diffusione al minimo indispensabile. In pratica, ciò significa che il numero privato di un lavoratore non dovrebbe essere visibile a tutti i membri del gruppo o a terzi non coinvolti nelle stesse attività.
Per garantire la corretta applicazione di queste regole, è consigliabile nominare un Responsabile della Protezione dei Dati (DPO) o un referente privacy interno, in grado di monitorare le procedure e aggiornare la documentazione. Il DPO — o chi ne svolge le funzioni — deve anche verificare la presenza del registro dei trattamenti aggiornato, in cui sia descritto in modo puntuale l’uso dei dati dei dipendenti, compresi eventuali canali digitali aziendali.
Infine, nessuna procedura è efficace senza una formazione costante del personale. Ogni dipendente, in particolare chi gestisce risorse umane o strumenti digitali, deve comprendere l’importanza della riservatezza e i rischi legati all’utilizzo improprio dei dati. Una cultura aziendale orientata alla protezione dei dati non solo riduce i rischi di sanzione, ma migliora l’immagine dell’impresa e rafforza la fiducia dei collaboratori.
In sintesi, l’azienda che desidera evitare errori in materia di privacy deve:
-
analizzare le finalità del trattamento;
-
individuare una base giuridica valida;
-
fornire un’informativa completa;
-
redigere policy interne chiare;
-
garantire la formazione del personale;
-
e mantenere aggiornati i registri di trattamento.
Questa è la vera essenza della compliance privacy aziendale: una combinazione di regole, trasparenza e responsabilità che tutela sia l’impresa sia i suoi dipendenti, evitando errori costosi e migliorando l’efficienza gestionale complessiva.
Diritti del lavoratore (e doveri aziendali correlati)
Il diritto alla protezione dei dati personali non è soltanto una garanzia astratta, ma un diritto concreto che il lavoratore può esercitare in ogni momento nei confronti del proprio datore di lavoro. Nel contesto aziendale, ciò significa che il dipendente ha il pieno diritto di sapere quali dati vengono trattati, per quali finalità, da chi e per quanto tempo.
Quando l’azienda utilizza il numero personale del dipendente per fini lavorativi — ad esempio, inserendolo in un gruppo WhatsApp aziendale — deve poter dimostrare di aver rispettato i principi di liceità, trasparenza e minimizzazione previsti dal GDPR.
Uno dei primi diritti fondamentali riconosciuti al lavoratore è quello di opposizione al trattamento (art. 21 GDPR). Se il dipendente ritiene che l’uso del proprio numero privato non sia necessario, non proporzionato o privo di una base giuridica valida, può opporsi in qualsiasi momento e chiedere che il trattamento venga interrotto.
L’azienda, in questo caso, è obbligata a valutare la richiesta e a dimostrare — qualora voglia proseguire nel trattamento — l’esistenza di un motivo legittimo prevalente che giustifichi l’uso del dato.
In assenza di una simile motivazione, il trattamento deve cessare immediatamente.
Il consenso del lavoratore, inoltre, deve rispettare condizioni rigorose.
Deve essere libero, cioè non influenzato da pressioni o conseguenze negative in caso di rifiuto; specifico, riferito a una determinata finalità (es. uso del numero per comunicazioni aziendali); informato, ovvero espresso solo dopo aver ricevuto un’adeguata informativa; e inequivocabile, preferibilmente fornito in forma scritta.
Un consenso ottenuto “per consuetudine” o implicito — ad esempio, dal fatto che il lavoratore non si sia opposto — non è conforme al GDPR.
Un altro diritto di rilievo è quello di revoca del consenso. Il lavoratore può in ogni momento decidere di ritirare il proprio consenso al trattamento del numero personale senza fornire motivazioni, e l’azienda deve interrompere immediatamente l’uso dei dati per quella finalità. È buona prassi, in questi casi, che il datore di lavoro fornisca un canale semplice e accessibile per la gestione di tali richieste (una mail dedicata o un modulo interno).
Inoltre, il dipendente ha diritto a ricevere una informativa chiara e completa, che spieghi non solo l’uso del suo numero personale ma anche le misure di sicurezza adottate per tutelare i dati. L’informativa deve indicare chi è il titolare del trattamento, i destinatari dei dati, il periodo di conservazione e i diritti esercitabili. In assenza di questo documento, il trattamento è da considerarsi irregolare.
Particolare attenzione va riservata anche al diritto alla disconnessione digitale.
Ogni lavoratore deve poter godere del proprio tempo libero senza subire interferenze o richieste di natura lavorativa sul proprio telefono personale. Inserirlo in gruppi WhatsApp aziendali o contattarlo fuori orario può costituire una violazione non solo del GDPR, ma anche della normativa in materia di orario di lavoro e salute psicofisica del dipendente.
Questo principio, sempre più richiamato dalle autorità europee e dalla giurisprudenza, impone alle aziende di stabilire limiti chiari e rispettare i confini tra vita privata e attività professionale.
Sul piano dei doveri aziendali, l’impresa deve garantire che ogni trattamento di dati dei dipendenti sia conforme ai principi di liceità, correttezza e trasparenza (art. 5 GDPR).
Deve inoltre assicurarsi che i lavoratori siano adeguatamente informati dei loro diritti e sappiano come esercitarli. L’azienda è tenuta a rispondere alle richieste entro termini precisi — generalmente 30 giorni — e deve dimostrare di aver adottato misure organizzative e tecniche idonee a proteggere i dati.
In caso di violazione, il lavoratore può presentare reclamo all’Autorità Garante o rivolgersi direttamente al giudice per ottenere risarcimento dei danni materiali o morali.
Le sanzioni, come dimostrato dal caso della sanzione da 70.000 euro, non colpiscono solo il lato economico dell’impresa, ma anche la sua reputazione e la fiducia del personale.
In conclusione, conoscere i diritti del lavoratore e rispettarli pienamente non è solo un obbligo legale, ma una scelta di equilibrio e rispetto.
Un’azienda che valorizza la privacy dei propri collaboratori costruisce un ambiente di lavoro più sereno, trasparente e produttivo — e riduce drasticamente i rischi di contenzioso e sanzione.
Esempio reale di vita quotidiana
Immagina una piccola azienda commerciale con una decina di dipendenti.
Per comodità, il titolare decide di creare un gruppo WhatsApp aziendale dove inviare aggiornamenti, orari e comunicazioni urgenti. Non disponendo di telefoni aziendali, inserisce tutti i collaboratori utilizzando i numeri personali già registrati in rubrica, senza chiedere alcuna autorizzazione formale.
Inizialmente sembra una soluzione pratica: i messaggi arrivano subito, il gruppo è attivo, e la comunicazione interna appare più fluida.
Dopo qualche mese, una delle dipendenti — Maria — segnala che preferirebbe non ricevere messaggi di lavoro sul proprio cellulare privato, soprattutto durante il fine settimana o la sera. Spiega che, pur essendo disponibile a comunicare in orario di ufficio, considera il proprio numero personale una sfera privata e non vuole che venga usato per scopi lavorativi.
L’azienda prende atto della richiesta, ma decide di reinserirla nel gruppo pochi giorni dopo, giustificando la scelta come “necessità organizzativa”.
Questa decisione, apparentemente banale, rappresenta però un trattamento illecito di dati personali.
Maria aveva revocato il consenso all’uso del suo numero personale, e l’azienda — ignorando quella volontà — ha violato il principio di liceità previsto dal GDPR.
Il numero di telefono, infatti, è un dato personale e il suo utilizzo in un contesto aziendale senza base giuridica rientra pienamente tra le violazioni sanzionabili dalle autorità di protezione dei dati.
Dopo la reinclusione non autorizzata, la dipendente decide di rivolgersi a un avvocato, che presenta reclamo all’Autorità Garante.
Durante l’istruttoria emerge che l’azienda non aveva fornito un’informativa privacy ai lavoratori, non aveva formalizzato alcun consenso scritto, e non aveva previsto una policy aziendale per l’uso degli strumenti di messaggistica.
Il caso si conclude con una sanzione pecuniaria significativa per violazione dei principi di trasparenza, correttezza e proporzionalità, oltre all’obbligo per l’azienda di aggiornare le proprie procedure interne.
L’esempio di Maria non è un caso isolato.
Molte imprese, soprattutto nel settore dei servizi e del commercio, adottano strumenti digitali senza rendersi conto che ogni utilizzo improprio del numero personale dei dipendenti costituisce un trattamento di dati personali.
Ciò che spesso viene percepito come “un modo rapido per comunicare” può tradursi in una violazione del diritto alla privacy e in una sanzione pesante.
Questo scenario quotidiano dimostra come la compliance privacy non sia un lusso riservato alle grandi aziende, ma una necessità per tutte le organizzazioni.
Prevedere un telefono aziendale, fornire policy trasparenti, garantire il diritto alla disconnessione e chiedere consensi espliciti sono misure semplici ma decisive per evitare danni economici, conflitti interni e perdita di reputazione.
In altre parole, se un’azienda adotta un approccio responsabile, comunica in modo chiaro e rispetta la volontà dei propri collaboratori, non solo evita le sanzioni del Garante, ma rafforza anche il rapporto di fiducia con il personale e costruisce una cultura organizzativa più solida, etica e moderna.
Domande Frequenti (FAQ)
1. È lecito inserire un dipendente in un gruppo WhatsApp aziendale utilizzando il suo numero personale?
No, non è lecito se manca una base giuridica valida. Il datore di lavoro deve ottenere un consenso esplicito, oppure dimostrare che l’uso del numero è strettamente necessario per eseguire il contratto di lavoro. In assenza di consenso o necessità documentata, l’inserimento configura un trattamento illecito di dati personali.
2. Il numero di telefono personale di un dipendente è considerato un “dato personale” secondo il GDPR?
Sì. Il numero di cellulare consente l’identificazione diretta di una persona fisica e rientra quindi nella definizione di dato personale prevista dall’articolo 4 del GDPR. Il suo utilizzo richiede quindi il rispetto di tutti i principi di liceità, correttezza e trasparenza.
3. L’azienda può utilizzare il numero privato del lavoratore in caso di emergenze organizzative?
Solo in circostanze eccezionali e temporanee, e comunque nel rispetto dei principi di necessità e proporzionalità. È fondamentale informare il lavoratore e ottenere un consenso preventivo. L’urgenza non giustifica da sola il trattamento dei dati personali.
4. Il consenso verbale del dipendente è valido per usare il suo numero personale?
No. Il consenso deve essere documentato e verificabile, preferibilmente in forma scritta. Il silenzio, la mancata opposizione o un assenso implicito non costituiscono consenso valido ai sensi del GDPR.
5. L’azienda può continuare a utilizzare il numero personale se il dipendente revoca il consenso?
No. Una volta revocato il consenso, il trattamento deve cessare immediatamente. Il datore di lavoro deve cancellare o disattivare il numero dai sistemi e dai gruppi di messaggistica aziendali, garantendo il rispetto del diritto all’oblio e della revoca libera prevista dall’art. 7 del GDPR.
6. Quali sono le conseguenze se l’azienda viola queste regole?
Le conseguenze possono essere rilevanti: sanzioni amministrative fino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato globale, danno reputazionale, obbligo di correzione immediata delle procedure e possibilità di reclamo da parte del lavoratore all’Autorità Garante. Anche una violazione minima può comportare multe significative.
7. L’uso del numero personale può violare il diritto alla disconnessione digitale?
Sì. Se il dipendente riceve comunicazioni lavorative sul proprio telefono privato fuori dall’orario di lavoro, si configura una violazione del diritto alla disconnessione digitale, riconosciuto dal legislatore e ormai considerato parte integrante del benessere organizzativo.
8. Come può un’azienda regolarizzare la propria posizione?
Predisponendo una policy aziendale chiara, fornendo informative aggiornate, nominando un referente privacy (o DPO), e limitando l’uso dei numeri personali solo ai casi indispensabili. È consigliabile inoltre fornire ai dipendenti dispositivi aziendali dedicati per comunicazioni di lavoro.
9. Il dipendente può chiedere un risarcimento in caso di violazione della privacy?
Sì. Se il trattamento illecito del suo numero personale ha causato un danno morale o materiale, il lavoratore può agire in giudizio per ottenere un risarcimento, oltre a presentare reclamo al Garante per la protezione dei dati personali.
10. Perché in un articolo sul GDPR si parla anche di infortunistica stradale?
Perché molte persone che cercano informazioni su infortunistica stradale e risarcimenti non sanno che un avvocato esperto in responsabilità civile può assisterle meglio delle agenzie di intermediazione.
Allo stesso modo in cui un avvocato tutela i dati personali di un lavoratore, può anche occuparsi della tutela dei diritti della vittima di un incidente, garantendo una protezione completa e conforme alla legge.




