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Malavvocatura - Errori Legali Responsabilità professionale

Responsabilità professionale dell’avvocato per negligenza (mancata riassunzione processo): deve esserci un danno effettivo

Cass. civ. Sez. III, Ordinanza del 21-06-2018, n. 16342

La Corte di Cassazione si sofferma sull’incidenza della condotta dell’avvocato danneggiante nella sfera del danneggiato. Ed invero, l’accertamento della responsabilità presuppone che venga individuata non solo la condotta professionale che si assume essere stata negligente, ma anche il danno che ne è derivato come conseguenza della condotta, in quanto nell’azione civile di risarcimento del danno l’affermazione di responsabilità non può essere disgiunta dall’accertamento della determinazione di un effettivo danno.

IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CASSAZIONE

“Nell’ipotesi in cui un’azione giudiziale svolta nell’interesse del cliente non abbia potuto conseguire alcun risultato utile, anche a causa della negligenza o di omissioni del professionista, non è solo per questo ravvisabile un’automatica perdita del diritto al compenso da parte del professionista, ove non sia dimostrata la sussistenza di una condotta negligente causativa di un effettivo danno, corrispondente al mancato riconoscimento di una pretesa con tutta probabilità fondata.”

L’ORDINANZA

(Omissis)

Svolgimento del processo

  1. Con atto di citazione notificato in data 26/10/2010, S.C., L. e A.R. convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Lecce l’avv. P.A., per ivi sentire accertare e dichiarare la sua responsabilità professionale ex art. 1176 c.c., comma 2 per non avere il 11.11.1993 provveduto a riassumere per tempo un atto di citazione collegato a un risarcimento danni per sinistro stradale chiesto dal padre, poi deceduto, in relazione al quale il diritto era stato dichiarato definitivamente prescritto per mancata riassunzione del giudizio nel termine indicato dal giudice; per l’effetto, chiedevano che il legale fosse condannato al risarcimento dei danni nei loro confronti per la somma complessiva di Euro 52.000,00, pari alla misura di risarcimento richiesta, o di quella maggiore o minore che sarebbe ritenuta di giustizia, oltre interessi e rivalutazione, pari la valore della domanda d risarcimento. P.A. si costituiva in giudizio per eccepire la prescrizione del diritto e il tribunale, con sentenza n. 4975/2014, (1) condannava il convenuto al pagamento, a titolo di risarcimento danni per colpa professionale, per la minor somma di Euro 10.082,50,00 corrispondente alla rivalutazione e interessi chiesta nel primo giudizio, posto che la domanda era limitata alla parte rimasta insoddisfatta da parte della compagnia assicuratrice che aveva già corrisposto una somma nei limiti del massimale assicurativo (2) condannava gli attori, in solido tra loro, al pagamento in favore del convenuto, a titolo di prestazioni professionali, di Euro 4.000,00 per onorari ed Euro 1.800,00 per diritti ancora dovute, escludendo altri importi chiesti perchè non documentati e (3) compensava le spese di lite al 40%, ponendo la restante parte in favore di parte attrice.
  2. Con atto di appello notificato in data 19/1/2015, P.A. proponeva appello innanzi alla Corte d’appello di Lecce chiedendo la riforma della pronuncia di primo grado nella parte in cui non ha rilevato la prescrizione del diritto degli attori fatto valere con citazione notificata il 5.11.2010, dovendosi far riferimento alla scadenza del termine per la riassunzione del giudizio interrottosi a causa della messa in liquidazione coatta amministrativa della assicurazione convenuta (11.11.1993) o, al più, alla data di conferimento del mandato per l’instaurazione del nuovo giudizio, nel 1995, nonchè l’infondatezza della domanda, in quanto non provata. Chiedeva, inoltre, la condanna degli appellati al pagamento delle ulteriori somme dovute per compensi professionali nella misura di Euro 3.571,00, oltre interessi. Con comparsa di costituzione e risposta del 15/5/2015, i signori S. chiedevano la conferma della sentenza di primo grado. La Corte d’Appello di Lecce, con sentenza n. 876/2016, depositata in data 12/9/2016, accoglieva in parte l’appello del legale, ritenendo che il danno non fosse stato specificamente dedotto e provato dagli attori, ritenendo assorbiti gli ulteriori motivi di gravame; respingeva inoltre l’ulteriore richiesta di compenso professionale, sull’assunto che si trattava di domanda contestata dagli attori appellati e non documentata. Pertanto riformava la sentenza di primo grado, confermandone la sola parte relativa ai compensi dovuti dai signori S. al legale appellante. Inoltre, compensava interamente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio, ravvisando gravi ed eccezionali ragioni, posto che la successiva azione legale instaurata in luogo della riassunzione non appariva riconducibile a un’opzione degli attori, che certamente non può desumersi dal semplice conferimento di un nuovo mandato alle liti rilasciato al difensore.
  3. Avverso la sentenza n. 876/2015, S.C., L.G. e A.R. proponevano ricorso innanzi a questa Corte, con atto notificato in data 7/11/2016, deducendo tre motivi di ricorso. Con atto notificato in data 16/12/2016, P.A. compariva con controricorso e proponeva ricorso incidentale, deducendo tre motivi di gravame. I ricorrenti in data 27/12/2016 notificavano controricorso e ricorso incidentale.

Motivi della decisione

  1. IN VIA PRELIMINARE. I ricorrenti assumono che il controricorso e ricorso incidentale dell’intimato sia stato notificato fuori termine e pertanto sia inammissibile. Il ricorso risulta notificato il 19.12.2016, anzichè nel termine del 17.12. 2016 (slittato al 18.12.2016 essendo caduto in giorno festivo) al di fuori della scadenza del termine indicato per il deposito del ricorso, indicato ex art. 370 c.p.c.. Il motivo è infondato posto che l’atto risulta notificato in 16/12/2016 a mani dell’addetta allo studio del legale dei ricorrenti, Cosimo Prete, quale procuratore domiciliatario.
  2. RICORSO PRINCIPALE. Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, i ricorrenti deducono la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 1225 c.c. e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Con tale motivo si censura la parte della sentenza che ha ritenuto che non fosse stata fornita prova idonea che la somma offerta dalla compagnia assicuratrice rappresentasse la sola sorte capitale, entro il massimale di polizza, per cui dovesse intendersi esclusa la rivalutazione ed interessi per cui avevano agito gli attori. Difatti la Corte d’appello non ha tenuto conto del fatto che la compagnia di assicurazione aveva spontaneamente versato l’importo corrispondente al massimale di polizza, accettato dai ricorrenti a titolo di acconto, fatta salva la riserva di pretendere la rivalutazione e gli interessi da parte degli attori, e di questo ne avrebbe dato atto anche la Corte di cassazione e la pronuncia che ha ritenuto prescritto il diritto per mancata riassunzione del giudizio nelle forme previste.

2.1. Sul punto la Corte rileva che i ricorrenti si limitano a ripetere quanto è stato dai medesimi dedotto negli atti del giudizio, ma non tengono conto del fatto che essi non hanno offerto la prova che la loro pretesa nei confronti dell’assicurazione sarebbe stata con tutta probabilità accolta, pur trattandosi di una somma che fuoriusciva dal limite indicato nel massimale di polizza. Per tale ragione il ricorso appare inammissibile in quanto non coglie la ratio sottostante alla decisione impugnata che, invece, appare del tutto congrua e completa, dimostrando di non aver trascurato il danno in concreto necessario per poter affermare una responsabilità. Il fatto che il diritto a ulteriori somme si sia prescritto per inattività processuale determinatasi a causa dell’inerzia del professionista, non significa che l’azione intentata per farlo valere fosse fondata in tutti i suoi presupposti, essendo l’azione volta a far valere importi per rivalutazione e interessi oltre il massimale previsto nella polizza assicurativa, e interamente versato alla parte danneggiata. Il riconoscimento di tale ulteriore pretesa infatti comporta una responsabilità per mala gestio impropria della compagnia assicurativa il cui fondamento non è stato neanche dedotto; inoltre, stando alle ragioni addotte dal giudice di merito per escludere la lesione di un diritto, non è neanche stato provato che la compagnia assicuratrice avesse voluto escludere la somma per interessi e rivalutazione, per la quale i ricorrenti intendevano agire, e non anche una parte del capitale, non incluso nella pretesa fatta valere giudizialmente. Pertanto il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4.

  1. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, i ricorrenti deducono l’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Con tale motivo si evidenzia “l’obiettiva carenza del procedimento logico giuridico posto a base della decisione, essendo stato tralasciato del tutto un elemento centrale della controversia attinente al caso di responsabilità professionale del legale a causa della sua condotta inerte che ha fatto maturare la prescrizione biennale del diritto dei propri assistiti senza che fosse stata svolta alcuna attività professionale interruttiva di detto termine”.

3.1. Tale argomento risulta del tutto tautologico in quanto non fa riferimento ad alcuna parte della motivazione della sentenza. Nel motivo si assume solamente che la motivazione è carente in ordine all’elemento della dedotta responsabilità professionale del legale, per avere egli fatto maturare il termine di prescrizione. Tuttavia occorre ancora una volta sottolineare che l’accertamento della responsabilità presuppone che venga individuata non solo la condotta professionale che si assume essere stata negligente, ma anche il danno che ne è derivato come conseguenza della condotta, in quanto nell’azione civile di risarcimento del danno l’affermazione di responsabilità non può essere disgiunta dall’accertamento della determinazione di un effettivo danno, e sul punto la Corte d’appello ha ragionato essenzialmente in termini di carenza di prova del danno, costituente un presupposto indefettibile dell’azione di responsabilità, il cui onere incombe su chi agisce. Si confronti, sul punto, Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 25112 del 24/10/2017, ove si sancisce che “in tema di responsabilità professionale dell’avvocato per omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell’omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull’esito che avrebbe potuto avere l’attività professionale omessa”. Pertanto il suddetto motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4.

  1. Con il terzo motivo, à termini dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 i ricorrenti deducono la violazione o falsa applicazione degli artt. 1460, 2956 e 2236 c.c.. I ricorrenti deducono l’illegittimità del compenso professionale riconosciuto al legale sul presupposto che avendo essi ricevuto un danno a causa della condotta negligente del professionista, essi non sono tenuti a corrispondere alcun compenso professionale. L’argomento si pone quale conseguenza logica dell’assunto dei ricorrenti della responsabilità del legale, che vorrebbero vedere affermata a prescindere dalla prova del danno, e dunque dell’assunto che la obbligazione consistente nella prestazione legale svolta nel loro interesse si debba ritenere totalmente inadempiuta, perchè non ha prodotto alcun effetto utile.

4.1. In merito i ricorrenti richiamano un precedente della Corte di cassazione, sezione 3^, numero 4781 del 26/2/2013 che risulta inappropriato a regolare il caso de quo. L’assunto trascura, infatti, che l’errore professionale deve essere definitivo e fonte ultima del danno, cioè deve produrre la conseguenza di rendere del tutto inutile l’attività professionale pregressa in quanto finalizzata a tutelare il diritto fatto valere in giudizio dalla ricorrente e, quindi, pone il professionista in una condizione per cui la sua prestazione, che egli è stato chiamato a svolgere per l’assicurazione di detta tutela, si deve ritenere totalmente inadempiuta, perchè non ha prodotto alcun effetto a favore del cliente e ciò sia dal punto di vista del risultato, se l’obbligazione dedotta nel contratto di prestazione di opera si considerasse di risultato per la non eccessiva difficoltà della vicenda nella quale si è concretato l’errore, sia dal punto di vista della prestazione del mezzo della propria prestazione d’opera, se la si considerasse come obbligazione di mezzi. Tale richiamo giurisprudenziale tuttavia risulta astratto perchè non si confronta con la ratio della decisione, ove è chiarito come non sia stato provato che l’azione volta a ottenere una somma ulteriore per interessi e rivalutazione, oltre il massimale di polizza, e dichiarata prescritta per effetto della mancata riassunzione della controversia nei termini indicati, avesse potuto avere esito favorevole.

4.2. In merito giova sottolineare che la prestazione di un avvocato si configura per lo più come un’obbligazione di mezzi e non di risultato, secondo una classica distinzione, ancora attuale, in materia di prestazione d’opera professionale. Tale principio di diritto, ravvisabile nell’art. 2237 c.c., pone a carico del cliente che recede dal contratto d’opera il compenso per l’opera svolta, indipendentemente dall’utilità che ne sia derivata, e può essere quindi derogato solo per espressa volontà dei contraenti, i quali possono subordinare il diritto del professionista al compenso alla realizzazione di un determinato risultato, con la conseguenza che il fatto oggettivo del mancato verificarsi dell’evento dedotto come oggetto della condizione sospensiva comporta l’esclusione del compenso stesso, salvo che il recesso ante tempus da parte del cliente sia stato causa del venir meno del risultato oggetto di tale condizione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14510 del 14/08/2012). Conseguentemente, nell’ipotesi in cui un’ azione giudiziale svolta nell’interesse del cliente non abbia potuto conseguire alcun risultato utile, anche a causa della negligenza o di omissioni del professionista, non è solo per questo ravvisabile un’automatica perdita del diritto al compenso da parte del professionista, ove non sia dimostrata la sussistenza di una condotta negligente causativa di un effettivo danno, corrispondente al mancato riconoscimento di una pretesa con tutta probabilità fondata. La deduzione pertanto risulta inammissibile in quanto, anche in questo caso, essa non si raccorda con la decisione resa e assume principi di diritto non applicati correttamente alla fattispecie de qua.

4.3. Quanto al dedotto mancato rilievo della prescrizione del diritto del legale a ricevere compensi per la sua attività, eccepita ex art. 2956 c.c., comma 1, lett. 2, per essere il giudizio terminato in data 27 maggio 2005, e per essere invece la domanda riconvenzionale spiegata in data 2 febbraio 2011, quando ormai era decorso il termine triennale di prescrizione del diritto sancito dall’art. 2956 c.c., il motivo omette di citare il passo della sentenza da cui dovrebbe risultare che tale eccezione non è stata considerata nei giusti termini dai giudici di merito, nonostante la questione fosse stata oggetto di specifico rilievo nel giudizio di primo grado o nelle argomentazioni riprese nel giudizio di appello per contrastare la pretesa del legale. Nè risultano allegati al ricorso gli atti da cui si dovrebbe evincere che il legale ha dichiarato di rinunciare alle proprie competenze relativamente al giudizio de quo. Pertanto il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6, mancando il requisito di autosufficienza.

  1. RICORSO INCIDENTALE IN VIA SUBORDINATA. Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il controricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2934, 2935 e 2946 c.c., nonchè l’omesso esame in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il controricorrente deduce l’omesso esame della documentazione agli atti decisivi per il giudizio. Con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il controricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c..

5.1. I motivi sono stati proposti dall’intimato in via subordinata, nella denegata ipotesi di accoglimento di uno dei motivi di censura avanzati dai ricorrenti. Pertanto le questioni restano assorbite dal rilievo di inammissibilità del ricorso principale.

  1. Conclusivamente, il ricorso principale va dichiarato inammissibile, con assorbimento di ogni ulteriore questione. La Corte condanna pertanto i ricorrenti alle spese liquidate in Euro 3.200,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15h e ulteriori oneri di legge.

P.Q.M.

  1. dichiara inammissibile il ricorso principale, con assorbimento di ogni ulteriore questione;
  2. condanna pertanto i ricorrenti alle spese liquidate in Euro 3.200,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e ulteriori oneri di legge.
  3. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2018

 

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