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Responsabilità professionale

Malavvocatura - Errori Legali Responsabilità professionale

Responsabilità professionale dell’avvocato: alla condotta omissiva si applica la regola del “più probabile che non”

Cass. civ., Sez. III, Sentenza 24-10-2017, n. 25112

IL CASO: Tizio conviene in giudizio i due suoi ex avvocati per vedersi risarcito dei danni provocati da costoro provocati a causa della mancata riassunzione del giudizio per licenziamento illegittimo.

LA QUESTIONE: La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 24 ottobre 2017, n. 25112 affronta la delicata questione della responsabilità professionale ai sensi dell’art. 2236 c.c. in capo a due avvocati nonché dell’accertamento del nesso di causalità tra condotta omissiva e danno.

LA SOLUZIONE: Secondo la Suprema Corte l’accertamento del nesso causale dove essere esteso anche alle conseguenze risarcibili sul piano della causalità giuridica considerando risarcibile anche il mancato vantaggio che il ricorrente avrebbe potuto conseguire se gli avvocati si fossero comportati con la dovuta diligenza.

IL PRINCIPIO DI DIRITTO ENUNCIATO DALLA CORTE

In tema di responsabilità per colpa professionale consistita nell’omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza, o “del più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, posto che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell’omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull’esito che avrebbe potuto avere l’attività professionale omessa

(omissis)

Svolgimento del processo

P.S.F. convenne in giudizio gli avvocati C.M. e G., domandando che fosse accertata la loro responsabilità professionale per negligenza in relazione alla mancata riassunzione del giudizio di rinvio a seguito di cassazione, concernente un ricorso per licenziamento illegittimo, con conseguente prescrizione del diritto vantato dal loro assistito.

C.M. chiamò in causa la Assicurazioni Generali s.p.a., chiedendo di essere manlevato in caso di accoglimento delle pretese attoree.

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 7820 del 2013, ritenne la responsabilità professionale dei convenuti, ma rigettò la richiesta di risarcimento per mancanza di prova in ordine ai danni che il P. asseriva di aver subito.

La sentenza venne impugnata dal P. in via principale, in relazione all’affermazione del difetto di prova del danno risarcibile, e dai C. in via incidentale, quanto all’accertamento della loro responsabilità professionale. La Assicurazioni Generali s.p.a. si costituì anche in grado di appello.

La Corte di appello di Milano, con sentenza pubblicata il 27 novembre 2014, in parziale accoglimento dell’appello principale, condannò i C. in solido al risarcimento del danno subito dal P., quantificato in:

– Euro 45.029,28 per importi percepiti dal datore di lavoro Banca Profilo in ottemperanza della sentenza di primo grado e da restituire, oltre interessi legali;

– Euro 6.000,00 per spese legali per il medesimo titolo, oltre interessi legali;

– Euro 9.743.37 per compensi del legale di fiducia di quel grado (Avv. De Bernardi), oltre interessi legali;

– Euro 24.962,0 per perdita di chance (indennità sostitutiva), oltre interessi dal licenziamento (12 gennaio 1994);

– Euro 91.527,63 per perdita di chance (indennità suppletiva), oltre interessi dal licenziamento (12 gennaio 1994);

– Euro 1.224,00 per onorari corrisposti all’avv. C.M. per attività professionale non effettivamente svolta;

il tutto oltre al pagamento delle spese del grado.

Condannò inoltre la Assicurazioni Generali s.p.a. manlevare C.M. da quanto fosse stato costretto a pagare al P. per le ragioni sopra esposte.

Avverso tale decisione ricorrono separatamente C.G., con sette motivi, e C.M., con undici motivi, cui resistono con controricorso il P. e la Generali Italia s.p.a. (nuova denominazione nel frattempo assunta dalla Assicurazioni Generali s.p.a.). Quest’ultima propone altresì ricorso incidentale, affidato a due motivi, relativo alla posizione di C.M., cui resistono con controricorso lo stesso C.M. e il P..

Hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. C.M., C.G. e la Generali Italia s.p.a.

Motivi della decisione

  1. I ricorsi di C.G. e M. propongono parecchi motivi coincidenti, che possono essere esaminati congiuntamente.2.1 Con il primo motivo C.M. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c..Sostiene il ricorrente che il giudice di appello sarebbe incorso in extrapetizione, includendo fra le voci di risarcimento anche quanto versato dal P. all’avvocato De Bernardi, giacchè tale somma non sarebbe stata indicata nelle conclusioni dell’atto d’appello del P..

    Con il nono motivo, il medesimo ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 1218, 1223, 1225 e 2697 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo e la falsa applicazione dell’art. 393 c.p.c., in quanto la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che la proposizione di una nuova domanda nel 2005 non abbia interrotto il nesso causale nella produzione del danno.

    2.2 Tali doglianze riguardano il medesimo capo della sentenza d’appello impugnato da C.G. con il quarto e il quinto motivo di ricorso, nel cui ambito si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 1218, 1223 e 2697 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo discusso fra le parti.

    2.3 Giova premettere, per comprendere meglio la questione dibattuta, che il P., dopo la scadenza del termine per riassumere il giudizio innanzi al giudice del rinvio, decise di riproporre ex novo la domanda nei confronti dell’ex datore di lavoro Banca Profilo, invocando però l’effetto vincolante della sentenza della Corte di cassazione a lui favorevole, ai sensi dell’art. 393 c.p.c.. Per la presentazione del nuovo ricorso si rivolse all’avvocato De Bernardi. La causa, tuttavia, si concluse con l’accertamento dell’intervenuta prescrizione del diritto del P. e la condanna dello stesso – in accoglimento della domanda riconvenzionale svolta da Banca Profilo – alla restituzione delle somme che quest’ultima gli aveva corrisposto in spontaneo adempimento della sentenza di primo grado del primo giudizio, quello estintosi per omessa riassunzione a seguito di cassazione con rinvio.

    Per l’assistenza legale prestata nel nuovo processo, il P. corrispose all’avvocato De Bernardi la somma di Euro 9.747,37.

    2.4 La censura articolata da C.M. attiene alla delimitazione dell’oggetto della devoluzione al giudice d’appello e quindi ha rilievo preliminare rispetto a quelle formulate dall’altro ricorrente, concernenti la corretta applicazione dei principi in tema di causalità.

    Il motivo è fondato.

    Come si ricava dall’analitica elencazione delle domande risarcitorie formulate nelle conclusioni dell’atto d’appello (riportate, per soddisfare il principio dell’autosufficienza, da C.M. nel par. 7.6 del suo ricorso), il P. non ha indicato, fra le voci al cui risarcimento – in riforma della sentenza di primo grado – chiedeva la condanna dei professionisti, l’importo di Euro 9.747,37 corrispondente agli onorari corrisposti all’avvocato De Bernardi per tentare di porre rimedio alla decadenza maturata per colpa degli avvocati C..

    Il P. non indica, in controricorso, risultanze di segno diverso, limitandosi a sostenere che l’interpretazione complessiva dell’impugnazione avrebbe dovuto portare a ritenere che pure questo capo della sentenza di primo grado era compreso fra quelli di cui aveva richiesto la riforma.

    In realtà, nell’atto d’appello si fa riferimento alle somme versate alla Banca Profilo, ma non anche a quelle corrisposte all’avvocato De Bernardi. Nè può darsi adito alla tesi del controricorrente, secondo cui tale domanda sarebbe stata comunque ricompresa in via subordinata tra le richieste del P., in quanto volta ad una generica condanna secondo equità: trattandosi appunto di domanda subordinata al mancato accoglimento della principale, che in realtà venne accolta, la stessa è stata assorbita.

    2.5 In considerazione di quanto sopra, il primo motivo del ricorso di C.M. e il quarto motivo del ricorso di C.G. devono essere accolti, rilevandosi che sul punto la corte d’appello ha pronunciato oltre quanto gli era stato devoluto.

    Ciò determina l’assorbimento del nono motivo del ricorso proposto da C.M. e del quinto motivo del ricorso proposto da C.G..

    Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, è possibile decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, dichiarando non dovuto il rimborso dell’importo di Euro 9.747,37, corrispondente agli onorari corrisposti dal P. all’avvocato De Bernardi.

    n il secondo motivo, C.M. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio, con riferimento al capo della sentenza impugnata in cui gli onorari professionali dei quali il ricorrente è condannato alla restituzione sono quantificati in Euro 1.224,00, anzichè lire 1.224.000.

    Il motivo è fondato.

    Lo stesso P. riconosce, nel controricorso, l’errore contenuto nella sentenza di appello, pur sostenendo che si tratterebbe di un errore materiale di cui non si sarebbe comunque avvantaggiato (pag. 38 del controricorso).

    In realtà, l’individuazione di tale importo nella moneta corrente – piuttosto che in lire – costituisce oggetto di specifico accertamento della corte d’appello: “l’avvocato C.M. ha riconosciuto di aver ricevuto per le proprie prestazioni professionali la somma di Euro 1.224, escludendo di aver percepito altri emolumenti, versamenti che la parte non è riuscita a dimostrare” (pag. 14).

    In sostanza, non vi è contrasto fra motivazione e dispositivo, nè vi sono altri elementi obiettivi che inequivocabilmente consentano di escludere l’ipotesi che tale importo costituisca l’effettivo decisum della corte d’appello (si consideri, peraltro, che il P. aveva chiesto la condanna del C. alla restituzione dell’importo di lire 5.200.000, talchè l’accertamento del dovuto nei limiti di Euro 1.224,00 del tutto compatibile con un accoglimento parziale della domanda).

    Si tratta, dunque, di una statuizione di merito erronea, in quanto adottata in violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. (come essenzialmente riconosciuto anche della controparte), che deve essere cassata.

    Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, è possibile decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, dichiarando dovuto – per le causali innanzi specificate – l’importo di Euro 632.14 (pari a lire 1.224.000), anzichè quello di Euro 1.224,00.

    4. Con il terzo motivo, C.M. deduce la violazione dell’art. 169 c.p.c., comma 2, artt. 115 e 345 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in quanto la corte d’appello avrebbe ignorato quanto dallo stesso contestato relativamente al tardivo ri-deposito del fascicolo di parte avversa. Sostiene, in particolare, che il P. avrebbe ritirato il proprio fascicolo di parte nel corso del giudizio di primo grado, restituendolo solo unitamente alla memoria di replica, in violazione dell’art. 169 c.p.c., comma 2, che prevede che il fascicolo di parte deve essere restituito al più tardi al momento del deposito della comparsa conclusionale. Di conseguenza, il giudice d’appello non avrebbe potuto considerare ai fini del giudizio i documenti tardivamente (ri)depositati, trattandosi di materiale probatorio “nuovo” rispetto quello su quale si era basata la decisione di primo grado (che aveva rigettato la domanda del P. per difetto di prova).

    La circostanza è contestata, in punto di fatto, dal P..

    Il motivo è inammissibile per difetto del requisito dell’autosufficienza.

    Infatti, il C. non fornisce alcun elemento che consenta a questa Corte di verificare nè l’avvenuto ritiro del fascicolo di parte del P., nè – tantomeno – la sua tardiva restituzione. Indicazioni in tal senso non si traggono neppure dalla lettura della sentenza del tribunale che, pur rigettando la domanda del P. per un generico difetto di prova, non fa alcun riferimento alla tardiva restituzione del fascicolo di parte o alla circostanza di non averne potuto esaminare il contenuto per via della preclusione posta dall’art. 169 c.p.c., comma 2.

    La Corte, dunque, non è stata posta nelle condizioni di delibare la fondatezza della censura, che deve essere, di conseguenza, dichiarata inammissibile.

    5.1 Con il quarto motivo, C.M. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.c., nonchè l’omessa motivazione e l’omesso esame di un fatto decisivo ai fini del giudizio.

    Il ricorrente censura la sentenza d’appello nella parte in cui ritiene raggiunta la prova in ordine alle mansioni effettivamente svolte dal P., rilevanti ai fini della sussistenza e della quantificazione del danno. Secondo il C., la sentenza della Cassazione non aveva statuito nulla di definitivo sul punto e aveva demandato al giudice del rinvio i necessari ulteriori accertamenti, che a causa dell’omessa riassunzione – non sarebbero mai stati svolti. Anzi, il P. non avrebbe affatto adempiuto al proprio onere di produrre documenti in grado di giustificare la propria pretesa tra cui, soprattutto, il CCNL. La corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi sul punto, esponendosi alle doglianze esposte nel motivo in esame.

    5.2 Con il sesto motivo, C.M. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè degli artt. 1176, 1281 e 2697 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo.

    Il ricorrente sostiene che il giudice d’appello – in sostanza non avrebbe adottato una “decisione adeguatamente motivata e immune da vizi logici” in merito alla valutazione prognostica circa il probabile esito dell’azione giudiziale malamente proseguita.

    Inoltre, il perimetro del materiale probatorio esaminabile dalla Corte d’appello sarebbe stato delimitato dal Tribunale, che aveva esclusa la sussistenza del danno sulla base della produzione documentale; la statuizione relativa alla piattaforma probatoria non era stata fatta oggetto di appello da parte del P., con conseguente formazione del giudicato interno sui documenti utilizzabili dal giudice. L’impossibilità, per la Corte d’appello, di esaminare tali documenti avrebbe dovuto condurre all’esito negativo del giudizio prognostico relativo alle chances che aveva il P. di ottenere una pronuncia vittoriosa nel giudizio di rinvio.

    5.3 Con il settimo motivo C.M. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. egli artt. 1218 e 2697 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo.

    Il ricorrente sostiene che non potrebbe pervenirsi all’affermazione della sua responsabilità professionale, poichè in concreto non è stato provato il danno causato da tale condotta.

    5.4 Con simili accenti la sentenza è impugnata anche da C.G. che, con il terzo motivo, deduce la violazione delle stesse norme di legge e l’omesso esame di fatti decisivi e discussi fra le parti.

    Il ricorrente sostiene che il giudice di merito avrebbe omesso di effettuare la necessaria valutazione prognostica circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziaria estintasi per omessa riassunzione del giudizio dopo la pronuncia della Corte di cassazione. La corte d’appello, infatti, avrebbe desunto l’esisto fausto della lite “alla luce dei principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione”, senza considerare che non vi era alcuna certezza che il giudizio, se fosse stato tempestivamente riassunto, si sarebbe davvero risolto positivamente per il P.. Quest’ultimo, per un verso, aveva omesso di produrre nel giudizio di merito le prove documentali necessarie per dimostrare la bontà delle sue domande (che infatti vennero rigettata dal tribunale per difetto di prova) e, per altro verso, avrebbe avuto l’onere di riprodurre nel presente giudizio le prove documentali prospettate nella causa di lavoro, al fine di consentire al giudice della domanda risarcitoria di verificare la fondatezza delle domande prospettate nell’altra sede.

    5.5 Inoltre, con il sesto motivo, C.G. censura la sentenza impugnata osservando che l’omessa produzione, da parte del P., del CCNL avrebbe reso impossibile la liquidazione, da parte del giudice di merito, dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità suppletiva.

    5.6 Il quarto, il sesto e il settimo motivo del ricorso di C.M. e il terzo e il sesto motivo del ricorso di C.G. prospettano, dunque, censure in larga misura coincidenti e possono essere trattati congiuntamente.

    Tali motivi sono tutti infondati.

    5.7 Giova, a questo punto, riportare i passaggi salienti della sentenza impugnata: “in merito la Corte di cassazione aveva espresso dei principi di diritto, cui 11 giudice di rinvio sarebbe stato vincolato. (…) Chiariva inoltre il Supremo Collegio che le funzioni di responsabile dei controlli interni presso una società di intermediazione mobiliare non erano compatibili con lo svolgimento presso la stessa Sim di funzioni oggetto di tali controlli (…). Appare sufficiente quindi che, sulla base dei criteri necessariamente probabilistici, si possa affermare che, senza quell’omissione professionale, il risultato sarebbe stato conseguito. (…) Quindi, non è necessario il raggiungimento di una certezza che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati vantaggiosi, essendo sufficiente che tale risultato appaia probabile. Nel caso per cui è processo, alla luce dei principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione, sopra riportati, (…) si deve ritenere che apparisse ragionevolmente probabile che, se il procedimento fosse stato tempestivamente riassunto davanti alla Corte d’appello di Brescia, l’appellante si sarebbe potuto giovare della pronuncia del Supremo Collegio e delle statuizioni enunciate nella sentenza, cui si sarebbe dovuta conformare la valutazione del giudice di rinvio” (sent. appello, pagg. 9-11).

    Dunque, la corte d’appello ha ritenuto che la prova del danno derivato al P. dall’omessa riassunzione del giudizio di rinvio fosse ricavabile, secondo il criterio del “più probabile che non”, dal tenore della sentenza rescindente, che, pur demandando al giudice del rinvio il compito di “procedere ad un nuovo esame della questione relativa alla riconducibilità del licenziamento del P. ad un legittimo esercizio del potere di recesso per mancato superamento della prova” (sent. appello, pag. 11), avrebbe fissato dei “paletti” – costituiti dai principi di diritto ivi espressi – che rendevano del tutto improbabile la soccombenza del lavoratore.

    5.8 Così ricostruita la ratio decidendi contro cui si incentrano le critiche in esame, queste ultime risultano infondate.

    Anzitutto va rilevato che il vizio di motivazione, esplicitamente richiamato da C.M. nel sesto motivo di ricorso, ma nascosto fra le righe anche delle altre censure, non è più previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, fra i motivi di ricorso per cassazione, per le sentenze pubblicate dopo l’11 settembre 2012.

    In secondo luogo, occorre considerare che come già osservato trattando del terzo motivo di ricorso di C.M. (par. 4) – i ricorrenti non hanno addotto alcun elemento a dimostrazione della tesi secondo cui il P. avrebbe tardivamente ri-depositato il proprio fascicolo di parte, così espungendo documenti ivi contenuti dal panorama probatorio valutabile dai giudici di merito. In tal senso non si trae alcun argomento neppure dalla sentenza di primo grado, che rigetta la domanda del P. per generico difetto di prova, senza alcun esplicito riferito alla pretesa inutilizzabilità di quei documenti. Deve quindi anche escludersi che sul punto il P. dovesse articolare uno specifico motivo di impugnazione e, tantomeno, che si sia formato un giudicato interno.

    Inoltre, deve essere sottolineato che la sentenza del tribunale ha espressamente affermato la responsabilità professionale degli avvocati C., rigettando la domanda del P. solamente per difetto di prova in ordine al danno effettivamente subito. Consegue che, poichè l’affermazione di responsabilità professionale dei ricorrenti costituisce oggetto di doppio accertamento di merito conforme, la stessa non può costituire oggetto di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, secondo quanto previsto dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5.

    5.9 A questo punto, la sola questione di diritto che può essere esaminata da questa Corte è circoscritta all’esatta applicazione delle norme in tema di causalità.

    In proposito si deve osservare che la Corte d’appello ha impiegato un criterio probabilistico ai fini non solo dell’individuazione del nesso di causalità, ma anche – e soprattutto – del danno.

    Infatti, ricorrendo nella specie un caso di responsabilità professionale per condotta omissiva, l’esito del giudizio che gli avvocati C. hanno omesso di incardinare è meramente ipotetico e deve costituire oggetto di un accertamento prognostico nel quale il tema dell’evento di danno e quello del nesso di causalità risultano inevitabilmente connessi sul piano della causalità materiale (i.e. della relazione etiologica condotta/evento).

    5.10 Questa Corte ha ripetutamente affermato che, nell’accertamento del nesso causale in materia di responsabilità civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, a differenza che nel processo penale, ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008, Rv. 600899; più di recente, fra le molte: Sez. 3, Sentenza n. 22225 del 20/10/2014, Rv. 632945; Sez. Sentenza n. 23933 del 22/10/2013, Rv. 629110; Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 17/09/2013, Rv. 628702).

    Tale criterio va tenuto fermo anche nei casi di responsabilità professionale per condotta omissiva (qual quello in esame): il giudice, accertata l’omissione di un’attività invece dovuta in base alle regole della professione praticata, nonchè l’esistenza di un danno che probabilmente ne è la conseguenza, può ritenere, in assenza di fattori alternativi, che tale omissione abbia avuto efficacia causale diretta nella determinazione del danno.

    Occorre, tuttavia, distinguere fra l’omissione di condotte che, se tenute, sarebbero valse ad evitare l’evento dannoso, dall’omissione di condotte che, viceversa, avrebbero prodotto un vantaggio. In entrambi casi possono ricorrere gli estremi per la responsabilità civile, ma nella prima ipotesi l’evento dannoso si effettivamente verificato, quale conseguenza dell’omissione; nell’altra, il danno (che, se patrimoniale, sarebbe da lucro cessante) deve costituire oggetto di un accertamento prognostico, dato che il vantaggio patrimoniale che il danneggiato avrebbe tratto dalla condotta altrui, che invece è stata omessa, non si realmente verificato e non può essere empiricamente accertato.

    Nel caso di responsabilità professionale degli avvocati dei commercialisti) per omessa impugnazione (anche degli atti d’imposizione di tributi), ricorre la seconda delle ipotesi innanzi considerate, poichè l’esito del giudizio che si sarebbe dovuto intraprendere e rispetto al quale, invece, il professionista ha lasciato decorrere i termini, non può essere accertato in via diretta, ma solo in via presuntiva e prognostica.

    Pertanto, in tema di responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale, quando si tratta di attività del difensore, l’affermazione della responsabilità per colpa implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita (Sez. 3, Sentenza n. 10966 del 09/06/2004, Rv. 573480; (Sez. 3, Sentenza n. 9917 del 26/04/2010, Rv. 612727; Sez. 3, Sentenza n. 2638 del 05/02/2013, Rv. 625017).

    In sostanza, nei casi come quello in esame, l’accertamento del nesso causale si estende con medesimi criteri probabilistici – anche alle conseguenze dannose risarcibili sul piano della causalità giuridica (i.e. della relazione etiologica evento/conseguenze), ossia al mancato vantaggio che, ove l’attività professionale fosse stata svolta con la dovuta diligenza, il cliente avrebbe conseguito. Di tale danno, in queste circostanze, non può richiedersi una prova rigorosa e certa, incompatibile con la natura di un accertamento necessariamente ipotetico, in quanto riferito a un evento non verificatosi, per l’appunto, a causa dell’omissione.

    5.11 In ragione di quanto sopra esposto, va affermato il seguente principio di diritto:

    “In tema di responsabilità per colpa professionale consistita nell’omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza, o “del più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, posto che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell’omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull’esito che avrebbe potuto avere l’attività professionale omessa”.

    5.12 In applicazione di tale principio di diritto, ricorsi in esame sono infondati nella parte in cui postulano che l’affermazione della responsabilità professionale degli avvocati per una condotta omissiva sarebbe dovuta essere preceduta dal raggiungimento della prova certa circa dell’esito favorevole del giudizio di rinvio, anzichè dalla sola valutazione di un’elevata probabilità di vittoria. Dunque è erronea l’affermazione, presente in entrambi i ricorsi, secondo cui sarebbe dovuto essere onere del P. dimostrare la piena fondatezza delle sue domande.

    Correttamente, la Corte d’appello ha formulato un giudizio prognostico che – diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti – tiene conto degli ulteriori accertamenti di fatto che avrebbe dovuto svolgere il giudice di rinvio, ma perviene comunque alla conclusione del probabile esito favorevole dell’azione che non è stata diligentemente coltivata, sulla base degli stringenti vincoli posti giudice del rinvio dalla sentenza della Corte di cassazione.

    A questo punto, la questione dibattuta si sposta sul contenuto dei principi di diritto formulati nel giudizio di cassazione.

    Sotto tale profilo, però, entrambi i ricorsi risultano carenti del requisito dell’autosufficienza. Poichè la corte d’appello ha fondato la propria valutazione probabilistica circa l’esito favorevole della lite negligentemente abbandonata dagli avvocati C., argomentando in base ai vincoli che i principi di diritto affermati dalla Cassazione nella sentenza rescindente avrebbero posto all’accertamento demandato al giudice del rinvio, sarebbe stato onere dei ricorrenti produrre copia di tale sentenza. Infatti, conoscere il contenuto di quella sentenza sarebbe stato decisivo al fine di verificare se davvero i principi di diritto erano così stringenti da rendere improbabile un esito del giudizio di rinvio non favorevole al P..

    appena il caso di osservare che la sentenza di cassazione con rinvio è stata pronunciata da questa Corte in un giudizio diverso da quello per responsabilità professionale degli avvocati C. e quindi ne costituisce un mero antecedente logico fattuale, il cui effettivo contenuto questa Corte non può verificare d’ufficio, in mancanza della sua produzione a cura della parte onerata.

    5.13 I motivi in esame, pertanto, devono essere rigettati.

    6. Con il quinto motivo, C.M. denuncia la violazione e falsa applicazione delle norme del codice civile in tema di mandato, nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo. Il ricorrente sostiene che l’incarico professionale ricevuto dal P. era circoscritto al solo giudizio di cassazione, che egli svolse diligentemente tale attività difensiva e che null’altro gli si poteva richiedere. La Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare tale questione.

    Il motivo deve essere rigettato.

    Anzitutto va ribadito anche in questo caso che l’affermazione della responsabilità professionale degli avvocati C. costituisce oggetto di doppio accertamento di merito conforme, sicchè sul punto non è possibile proporre ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, stante il divieto posto dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5.

    In secondo luogo, quanto alla pretesa violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., si deve rilevare il difetto del requisito dell’autosufficienza, poichè il C. non ha indicato in quali scritti difensivi sarebbe stata dedotta innanzi alla Corte d’appello la questione dell’ampiezza del mandato.

    Peraltro, va puntualizzato che l’affermazione di colpa professionale non è basata sulla circostanza che il C. avrebbe dovuto provvedere personalmente alla riassunzione del giudizio di rinvio (per il quale non risulta neppure che gli sia stata conferita la procura bensì sull’omessa segnalazione al cliente dell’avvenuta pubblicazione della sentenza; circostanza, quest’ultima, che ha determinato lo spirare del termine per la riassunzione, l’estinzione del giudizio e la conseguente prescrizione del diritto azionato.

    Che tale obbligo d’informazione fosse compreso nel mandato ricevuto dal C. per il giudizio di cassazione, non vi è alcun dubbio.

    Trattandosi di responsabilità contrattuale, sarebbe dovuto essere i1 C. a dimostrare di aver diligentemente adempiuto all’obbligo di informazione. I giudici di merito – come già detto, con “doppia conforme” – hanno accertato che tale dovere di informazione non è stato diligentemente adempiuto e tale valutazione di merito non è censurabile in questa sede.

    7.1 Con l’ottavo motivo C.M. denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 2946 e 2948 c.c., nonchè dell’art. 393 c.p.c. e l’omessa valutazione di un fatto decisivo.

    La censura riguarda il termine di prescrizione applicato dalla Corte di. Appello alle voci di risarcimento riconosciute, e dunque per (1) la mancata iscrizione ai fondi di previdenza integrativa, (2) l’indennità sostitutiva del preavviso e (3) l’indennità suppletiva.

    Secondo il ricorrente, tali voci non sarebbero soggette al termine di prescrizione quinquennale e si dovrebbe applicare ad esse quello ordinario decennale.

    Di conseguenza, poichè – a seguito dell’estinzione del giudizio – l’ultimo atto interruttivo della prescrizione risale al 15 dicembre 1994, data di avvio del procedimento davanti al Pretore del lavoro di Milano, applicandosi il termine di prescrizione decennale il diritto al risarcimento si sarebbe potuto azionare fino al 15 dicembre 2004, ossia svariato tempo dopo il deposito della sentenza di cassazione.

    Siccome il P. aveva avviato contatti con altri avvocati in data 25 marzo 2003, quindi circa 21 mesi prima dell’avveramento della prescrizione del diritto, quest’ultima sarebbe imputabile alla tardività della nuova citazione, avvenuta solo nel 2005, e non a colpa di C.M..

    7.2 Di analogo tenore è il secondo motivo del ricorso di C.G., secondo cui le varie pretese economiche che si sarebbero potute riconoscere al P. hanno natura risarcitoria (contrattuale) e non retributiva e il regime di prescrizione applicabile sarebbe conseguentemente quello ordinario decennale. Pertanto, alla data di scadenza del termine per la riassunzione del giudizio di rinvio, la prescrizione dei diritti del P. non era ancora maturata e costui avrebbe potuto far valere le proprie istanze instaurando un autonomo giudizio.

    7.3 Entrambi i motivi devono essere rigettati.

    Questa Corte ha infatti chiarito che, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, le indennità spettanti al lavoratore sono assoggettate alla prescrizione quinquennale ex art. 2948 c.c., n. 5, e non all’ordinario termine decennale, a prescindere dalla natura dell’indennità medesima, in ragione dell’esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall’eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti nel momento della chiusura del rapporto (Sez. L, Sentenza n. 15798 del 12/06/2008, Rv. 603630, in tema di indennità sostitutiva del preavviso di licenziamento).

    Conseguentemente, risalendo l’ultimo atto interruttivo al 15 dicembre 1994, alla data di pubblicazione della sentenza di cassazione con rinvio era già ampiamente decorso il termine prescrizionale quinquennale e l’unico modo che il lavoratore avrebbe avuto per fare salve le proprie pretese sarebbe dovuto essere quello di proseguire il giudizio, così da giovarsi degli effetti sospensivi previsti dall’art. 2945 c.c., comma 2.

    8.1 Con il decimo motivo, C.M. deduce la violazione delle norme in tema di liquidazione delle indennità sostitutiva e suppletiva, anche con riferimento al CCNL “dirigenti SIM”, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo e la violazione o falsa applicazione dell’art. 393 c.p.c..

    Nell’ambito di tale censura si contesta la liquidazione dei danni operata dalla Corte d’appello, sostenendosi che non vi sarebbero prove sulle quali basare la determinazione del quantum debeatur.

    In sostanza, si deduce il difetto di motivazione in ordine alla decisione di liquidare l’indennità nella misura massima prevista dal contratto, anzichè nei minimi (come di prassi per i lavoratori con l’anzianità del P.). Inoltre, il giudice dell’appello si sarebbe discostato dai criteri individuati dalla Corte di cassazione nella sentenza del 2001, comunque vincolanti ai sensi dell’art. 393 c.p.c. Infine, la liquidazione sarebbe errata anche perchè comprensiva di imposte e di contributi previdenziali che, invece, si sarebbero dovuti escludere.

    8.2 In termini del tutto analoghi si pone il sesto motivo del ricorso di C.G., che contesta il quantum liquidato dalla Corte d’appello, non essendo stati prodotti nè il contratto SIM, nè alcuna busta paga. Il giudice di merito non avrebbe dato conto dei parametri (oggettivi) adottati al fine della determinazione della somma dovuta.

    8.3 Entrambi i motivi sono infondati.

    Essi si risolvono, al di là del nomen iuris adottato, nella contestazione del difetto di motivazione della sentenza impugnata, nella parte relativa alla liquidazione delle voci di danno risarcibili.

    Com’è noto, la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che non contempla più il vizio di motivazione, bensì lo “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. La nuova disposizione si applica alle sentenze pubblicate a partire dal 11 settembre 2012 quindi trova applicazione anche nel caso in esame.

    La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv 629830).

    Nella specie non ricorre alcuna delle ipotesi-limite sopra considerate e la motivazione della sentenza impugnata si pone al di sopra del “minimo costituzionale”.

    Consegue l’inammissibilità dei motivi in esame, che denunciano un vizio non più previsto dalla legge.

    Giova aggiungere, peraltro, che nessuno dei due ricorrenti indica dove siano state sollevate tali contestazioni, nè in primo grado, nè in appello, e le stesse non possono essere proposte per la prima volta in sede di legittimità.

    9.1 Con l’ultimo motivo (undicesimo), C.M. deduce la violazione dell’art. 1227 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo: la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare la questione del comportamento colposo imputabile al P., da cui dovrebbe derivare una riduzione del risarcimento.

    9.2 A tali censure è pressochè perfettamente sovrapponibile il settimo motivo del ricorso di C.G., che ricalca quasi letteralmente quello del figlio.

    9.3 Entrambi il motivi sono inammissibili per difetto del requisito di specificità.

    I ricorrenti, infatti, non indicano dove sarebbe stata formulata per la prima volta una simile eccezione, nè vi sono elementi da cui evincersi che il fatto sia stato effettivamente oggetto di discussione.

    I motivi sono inammissibili anche dalla diversa angolazione dell’omessa pronuncia, che i ricorrenti sembrerebbero voler far valere. Infatti, se così fosse, C. avrebbero dovuto formulare un motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nonchè indicare gli atti dai quali potersi evincere la corretta proposizione di tale domanda.

    10. Restano ora da esaminare i motivi esposti nel ricorso di C.G. non sovrapponibili a quelli esposti da C.M. e quindi non esaminati congiuntamente.

    11. Con il primo motivo C.G. deduce la violazione falsa applicazione degli artt. 1703 e 2697 c.c. e dell’art. 83 c.p.c., nonchè l’omesso esame di fatti decisivi e che sono stati oggetto di discussione fra le parti.

    In particolare, il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non avrebbe esaminato “molteplici profili di diritto e di fatto, così come emersi in termini incontrovertibili agli atti di causa”. Segue l’elencazione di una serie di deposizioni e di atti processuali dai quali la corte territoriale avrebbe dovuto trarre il convincimento che l’avvocato C.G. era estraneo al rapporto di prestazione opera professionale in favore del P. o, comunque, aveva adempiuto a tutti gli obblighi su di lui gravanti.

    La censura è inammissibile in quanto volta a chiedere un riesame delle risultanze istruttorie. Si tratta, in sostanza, di un vizio di motivazione, solo formalmente prospettato nella veste omesso esame di fatti decisivi e controversi.

    Ma, anche ipotizzando che il motivo si svolga interamente entro l’alveo della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, esso pronunciati con “doppia conforme” e quindi opera sbarramento posto dall’art. 348-ter c.p.c., comma 4.

    12. Con l’ottavo motivo, C.G. deduce l’omessa pronuncia sulla domanda di graduazione delle colpe, tra il ricorrente e l’avvocato C.M., nonchè sulla domanda di regresso formulata nei confronti di quest’ultimo.

    La censura è inammissibile, in quanto non viene riportato il passo della comparsa di costituzione e risposta contenente la proposizione delle domande di graduazione delle colpe e di regresso sulle quali la corte territoriale avrebbe omesso di pronunciarsi.

    La Corte di cassazione non è quindi posta nelle condizioni di verificare se le domande rispetto alle quali si deduce l’omessa pronuncia siano state mai effettivamente formulate.

    13. Venendo infine all’esame del ricorso incidentale proposto da Generali Italia S.p.A., con il primo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – l’omessa pronuncia sull’eccezione proposta dall’assicuratrice circa l’operatività della polizza al solo danno cagionato dall’assicurato C.M., con esclusione di quello derivante dal mero vincolo di solidarietà con C.G..

    Il motivo è inammissibile.

    Infatti, non è vero che la Corte d’appello abbia omesso di pronunciarsi sul punto. La questione espressamente affrontata a pag. 16 della sentenza impugnata, ove si conclude che “l’assicurazione sarebbe quindi in ogni caso operante, anche se il danno fosse stato risentito per effetto dell’attività prestata dal padre C.G. piuttosto che dall’avvocato Rasi, domiciliatario avanti alla Suprema Corte”.

    14. Con il secondo motivo, Generali Italia s.p.a. denuncia l’omessa pronuncia sulla domanda di graduazione della responsabilità e sull’eventuale esercizio del diritto di rivalsa nei confronti dei soggetti che sono stati riconosciuti responsabili solidali con l’avvocato C.M., per la quota di responsabilità eccedente quella dell’assicurato.

    Anche questa censura è inammissibile.

    Infatti, la mancata censura dell’affermazione della Corte d’appello (riportata nel paragrafo precedente) che include nell’area di operatività della polizza assicurativa anche i fatti illeciti imputabili a soggetti che agiscono in nome e per conto dell’assicurato, comporta l’inammissibilità del motivo in esame per carenza d’interesse, dal momento che quand’anche fosse stata graduata o ripartita la responsabilità professionale – in ogni caso la compagnia assicurativa avrebbe dovuto rispondere dei danni cagionati non solo dall’avvocato C.M., ma anche dai suoi corresponsabili.

    15. Considerata la parziale fondatezza dei ricorsi proposti da C.M. e G., va disposta la compensazione delle spese processuali fra gli stessi e il P..

    Stante la totale soccombenza della Generali Italia s.p.a., il cui ricorso interessa solamente la posizione di C.M., la stessa va condannata al pagamento delle spese processuali in favore di quest’ultimo.

    Inoltre, sussistono i presupposti perchè alla Generali Italia s.p.a. si applichi il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicchè va disposto il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione dalla stessa proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).

P.Q.M.

accoglie il primo motivo del ricorso di C.M., dichiarando assorbito il nono motivo, e il quarto motivo del ricorso di C.G., dichiarando assorbito il quinto motivo; cassa sul punto la sentenza impugnata e decidendo nel merito, dichiara non dovuto il rimborso dell’importo di Euro 9.747,37 corrispondente agli onorari corrisposti da P.S.F. all’avvocato De Bernardi.

Accoglie il secondo motivo del ricorso di C.M., cassa sul punto la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara dovuto – per le causali ivi specificate – l’importo di Euro 632.14, anzichè quello di Euro 1.224,00.

Rigetta nel resto i ricorsi di C.M. e C.G..

Dichiara compensate le spese processuali fra P.S.F., C.M. e C.G..

Dichiara inammissibile il ricorso incidentale proposto da Generali Italia s.p.a., che condanna al pagamento, in favore di C.M., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale Generali Italia s.p.a., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 13 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2017.

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